mercoledì 21 dicembre 2011
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​Di tante cose avrebbe bisogno il nostro Paese per tornare a guardare con fiducia al futuro. Sicuramente servirebbe maggiore coesione sociale, che si costruisce attraverso una rinnovata capacità di interpretare e perseguire il bene comune. Quello che invece non serve, ed è anzi controproducente, è l’ennesima battaglia ideologica sui delicati temi del lavoro: quel muro contro muro che divide il Paese alimentando tensioni e insicurezza sociale. L’articolo 18 non è un tabù. Se ne può certamente discutere. Ma a tempo debito. Alimentare ora – in una fase economica di piena recessione e dopo l’intervento sulle pensioni – uno scontro sociale sulla libertà di licenziamento ci sembra sbagliato. Anche perché non è certo l’articolo 18 il vero ostacolo all’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. Salvo che qualcuno non pensi che per assumere un giovane una impresa debba prima essere messa nelle condizioni di sbarazzarsi di un adulto. È la terribile crisi degli ultimi anni che frena le assunzioni e a pagarne le conseguenze sono principalmente i giovani. Vuoi perché sono meno rappresentati e, dunque, meno tutelati da un sindacato certamente in ritardo nel capire i cambiamenti in atto, ma anche faticosamente e meritoriamente impegnato a tutelare il posto di lavoro dei loro genitori. Vuoi anche perché sono privi di esperienza e, non di rado, dispongono di competenze professionali deboli assimilate in percorsi educativi e formativi lontani anni luce dalle reali esigenze del mondo del lavoro. Per contrastare la disoccupazione giovanile c’è chi propone una sorta di contratto unico di primo ingresso a tutele progressive. Eliminate o fortemente limitate le forme di lavoro temporaneo, ai giovani verrebbe offerto un contratto di lavoro a tempo indeterminato, ma senza tutele contro i licenziamenti per la prima parte della loro carriera lavorativa. L’articolo 18 non verrebbe così formalmente abrogato ma, più semplicemente, paralizzato per i primi tre anni di vigenza di ogni nuovo rapporto di lavoro. Su questa proposta, formulata in ambito accademico, si sono posizionati il presidente del Consiglio, già nel discorso di insediamento, e ora anche il ministro del Lavoro. La proposta non è così dirompente. Tuttavia, sebbene prospettata in termini di maggiore incentivo all’occupazione giovanile, troverebbe applicazione per tutte le nuove assunzioni. Dunque anche per quelle dei padri e non solo per quelle dei figli. Dando così luogo a un forte irrigidimento del mercato del lavoro. Pochi adulti sarebbero disposti a cambiare il lavoro sapendo di perdere così le tutele dell’articolo 18. E questo finirebbe allora per ridurre le nuove assunzioni o comunque per alimentare un forte contenzioso da parte di chi fosse licenziato in regime di articolo 18. Se così stanno le cose non possiamo dimenticare che solo pochi mesi fa il Governo, le Regioni e tutte le parti sociali hanno approvato una riforma dell’apprendistato indicato come il canale privilegiato di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. Ebbene, prima di alimentare nuovamente lo spettro dei licenziamenti e lo scontro sociale che ne conseguirebbe, perché non provare a capire cosa è, già oggi, l’apprendistato. A ben vedere potrebbe essere questo il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a tutele progressive che stiamo cercando. Tre anni senza articolo 18, proprio come nel contratto unico. Ma con l’indiscutibile vantaggio che i primi tre anni di rapporto non sarebbero una mera prova lunga, ma un ben più qualificante e gratificante percorso formativo, finalizzato a dotare i giovani di quelle competenze e professionalità che realmente servono alle imprese. E che danno poi luogo a percorsi lavorativi stabili e di qualità.
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