Il cantante Lucio Dalla e il poeta Roberto Roversi formarono uno dei più straordinari sodalizi tra poesia e canzone. Dalla un cantante, bisognoso di platee, festival, pubblico. Roversi un poeta che condannava la vendita come nemica dell’arte. Lui faceva libri, ma rifiutava di farli stampare dagli editori. Preferiva stamparseli al ciclostile, nella sua libreria antiquaria Palmaverde, e mandarli gratis a chi glieli chiedeva. Roversi non maneggiava denaro, viveva e vive parcamente. Ricordo un pranzo in cui mi offrì mezza pizza, cioè una in due.
Un’altra persona mi offrì mezza pizza, ed è il parroco della Chiesa dei Sassi a Matera (c’era appena stato Mel Gibson, a girare
The Passion:
mezza pizza anche a lui). Con tanti ho mangiato una pizza intera, e non li ricordo. Con questi, mezza pizza, e non li dimentico. Regalando i suoi libri di poesia, Roversi boicottava il mercato. La poesia doveva circolare come dono dall’amico all’amico. Era possibile? Molti gli dicevano di no, compreso chi scrive queste righe. C’è un monito per l’autore: «Tu hai un’idea, e la scrivi; se l’idea arriva a destinazione, è merito suo; se non arriva, è colpa tua». Ma Roversi era (è) un puro, troppo puro per la nostra epoca, un 'monaco laico'. In tutt’e due, Roversi e Dalla, c’era una fede nella bontà dell’uomo, che era il residuo velato o palese di un originario cristianesimo. Più palese in Dalla, più velato in Roversi. Dalla era un fedele di Padre Pio. Ho detto «in tutt’e due», ma c’è un terzo personaggio, che non c’entra con Dalla, ma nel quale la scrittura era satura di cristianesimo, ed era Franco Fortini. Pasolini sarebbe stato il quarto, ma era perduto nella capitale. Il sodalizio Dalla-Roversi nacque con infinite cautele. Ciascuno sospettava dell’altro.
Ma (stranamente) funzionò. Roversi incontrava, nell’inconscio di Dalla, l’idea comune che il «male della nostra storia» consiste nella perdita della civiltà contadina, e nell’arrivo della civiltà industriale. Roversi intendeva, e Dalla accettò, come civiltà delle macchine, la civiltà delle auto.
Sembrava una concezione riduttiva, invece era portentosa. Nella mente di Roversi c’era il concetto che la civiltà delle automobili sacrifica l’uomo che le usa: è l’automobilismo che si serve di Nuvolari. L’industria non ha pietà. La mancanza di pietà nella storia è una costante in Pasolini-Roversi-Dalla. Ma la mancanza di pietà è, in Roversi-Dalla, la forza della civiltà industriale, lo strumento con il quale avanza.
Sui campi di battaglia dove si fa la storia restano morti e feriti: sono gli operai. C’è una 'pietà operaia' in Roversi e Dalla, come c’è una 'pietà contadina' in Pasolini. La sconfitta della civiltà contadina e operaia è la sconfitta dei padri, rinnegati dai figli. In quegli anni Dalla-Roversi crearono tre raccolte di poesie-canzoni (
Il giorno aveva cinque teste, Anidride solforosa, Automobili)
sulla condanna delle macchine e sul rimpianto della terra, che è lo stesso discrimine su cui lavorava Pasolini, con più marcata nostalgia: diceva «darei tutta la Montedison per una lucciola», perché le industrie hanno sterminato le lucciole.Non l’ho mai detto al mio amico-padre Roversi (che oggi leggerà questo articolo, e verso il quale ho la soggezione del figlio verso il padre), quando veniva a trovarmi con la sua Volkswagen Maggiolino verde. Non l’ho detto a Lucio Dalla, quando venne a casa mia, così giovane ed energico (io sempre sul divano, lui sempre sul tappeto) che sono costretto a domandarvi: «Ma siete sicuri che sia morto?». E non l’ho detto a Pasolini, che fu tre volte mio padre, prefatore del mio primo romanzo, delle mie prime poesie, e autore di uno scritto corsaro sul mio primo libro di critica. La maledizione all’industria marciava a tutto spiano, e in Pasolini-Roversi-Dalla dava risultati poetici grandiosi. Ma la mia obiezione era: sì, il passaggio dalla civiltà contadina alla civiltà industriale ha fatto tabula rasa dei valori morali (naturali-cristiani) dentro di noi, ma non era resistibile, aveva il fascino maligno della Medusa. Ce l’ha ancora. «Africa, mia sola alternativa», dice un verso di Pasolini. «Europa, nostra unica speranza», dicono gli africani venendo qui.