C'è una grammatica dei gesti, in Francesco, che trascende le stesse parole che pronuncia. Che le lega insieme e le spiega più ancora dell’immediato, semplice lessico che il Papa usa per renderle subito comprensibili e accessibili a tutti. E che le trasforma in teologia. Dai più semplici, come il suo continuo cercare gli occhi dei singoli che gli stanno davanti, fossero pure milioni, a dirci che i suoi interlocutori non sono "i credenti", ma sei proprio "tu che sto guardando ora" – tu, lui, ciascuno di quanti riesce a incrociare con lo sguardo – fino a quelli più, apparentemente, complessi da interpretare, ma che comunque, in qualche modo, finiscono sempre per "arrivare", anche senza che magari ce ne se renda conto. Ossia a legare, spiegare parole, e farne teologia.L’aver deciso che fosse Bangui il luogo in cui aprire la prima Porta Santa del Giubileo della Misericordia appartiene proprio a questa seconda categoria. Perché al di là e al di sopra dei significati, per così dire, immediati, quello che papa Bergoglio ci ha voluto dire va anche oltre il "semplice" omaggio alla Chiesa africana, al suo volerne fare «la capitale spirituale del mondo» in quanto «terra che soffre da diversi anni la guerra, l’odio , l’incomprensione, la mancanza di pace», come egli stesso ha detto. A Bangui, con l’aprire quella Porta così distante da Roma – gesto senza precedenti nella storia – ci ha detto, anzi ripetuto, che la Chiesa è lì dove ci sono credenti decisi a vivere e agire come veri seguaci di Cristo. Di più: ha detto che ogni credente dev’essere in qualche modo egli stesso una «porta santa», capace di incarnare quel "volto della misericordia" invocato nella bolla d’indizione
Misericordiae vultus.È così, dentro a questa visione, che si spiegano e tengono insieme, e si comprendono, le parole dell’invito rivolto da papa Francesco a essere «artigiani del perdono, specialisti della riconciliazione, esperti della misericordia». Non un richiamo a un’astratto, magari pure affascinante, irenismo, ma la sollecitazione, rivolta a ognuno, a farsi carico nel quotidiano della "fatica" dell’evangelizzazione, che resta la prospettiva imprescindibile della vita di ogni credente. Allo stesso modo in cui si spiegano, tengono insieme e si comprendono le parole della preghiera levata ieri affinché «cristiani e musulmani rimangano uniti come fratelli, perché cessi ogni azione violenta che, da una parte e dall’altra, sfigura il Volto di Dio», e per dire «"no" all’odio, alla vendetta, alla violenza, in particolare a quella che è perpetrata in nome di una religione o di Dio», perché «Dio è pace». Perché nulla di ciò può essere se, per primi, come Gesù ha insegnato, i cristiani non sono capaci di essere, appunto,
Misericordiae vultus.Non c’è, per Bergoglio, altra strada che questa. E a Bangui, con quell’apertura anticipata e decentrata rispetto alla storia e alla tradizione, rovesciando – anche in questo – ogni nostra certezza, ce l’ha ripetuto una volta di più, come fa instancabilmente dalla prima messa domenicale celebrata dopo la sua elezione, nella parrocchia vaticana di Santa Marta, quando per la prima volta parlò di misericordia, questa parola che, disse, «cambia tutto». Parola che innanzitutto deve cambiare ogni credente, il suo modo di vivere, il suo modo di essere nel mondo e per il mondo, lo stesso modo, paradossalmente, di sentirsi Chiesa. Secondo una teologia quotidiana che non dimentica la dottrina, ma è capace di farla vivere, con la stessa forza urgente con cui la misericordia batte nel cuore del Padre, nel cuore e nei gesti di ciascuno di noi. Per trasformare il mondo.