lunedì 14 settembre 2015
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All’ingresso della sua tenda a Mamre, stanca di una vita di delusioni, Sara rise di una risata sarcastica tra sé e sé: che ne potevano sapere della sua vita tre stranieri giunti chissà da dove, tre perfetti estranei, tre simboli dell’alterità assoluta? Come osavano promettere un figlio, un futuro di speranza a lei e al suo povero marito, entrambi ormai in un’età troppo avanzata per generare la vita? Forse in questo periodo nelle nostre comunità cristiane molti si sentono proprio come Sara e si chiedono che senso abbia l’accoglienza dei profughi stranieri oggi, in un tempo in cui la precarietà non risparmia più nessuno. Ma Abramo, narra il capitolo 18 della Genesi, ci crede e insegna alla moglie che l’ospitalità è qualcosa più della semplice accoglienza: è la tessitura di rapporti di dialogo, è la condivisione di un’esperienza di vita. È la vocazione a un nuovo futuro, che per Sara e Abramo avrà il volto del figlio tanto atteso, Isacco.Se il nostro scetticismo fa il pari con quello di Sara, il nostro Abramo è papa Francesco: egli infatti domenica scorsa, nell’invitare «ogni parrocchia, ogni comunità religiosa, ogni monastero, ogni santuario d’Europa» ad aprire le porte a una famiglia di profughi ha usato proprio il termine «ospitare». E gli ospiti, si sa, non sono mai semplici «turisti» di passaggio, perché nel tempo in cui si fermano sotto il nostro tetto essi diventano parte della nostra famiglia. Le parole del Papa, allora, per la Chiesa rappresentano una sfida ben più grande del semplice impegno a cercare locali e spazi per dare una dimora ai rifugiati. Si tratta, infatti, di mettere alla prova la vita pastorale delle comunità locali, cioè di capire se esse sono pronte a fare quello per cui si sono preparate da sempre: saper costruire percorsi di futuro assieme agli uomini che incontrano sul proprio cammino. Abramo accoglie i tre stranieri alle querce di Mamre e compie gesti precisi: la lavanda dei piedi, l’offerta di acqua e cibo, il dialogo. In questi gesti si potrebbero leggere tutte quelle pratiche pastorali che per una comunità cristiana dovrebbero essere ordinarie. Con quale scopo? Prima di tutto mettersi in ascolto della novità, di ciò che questi stranieri giunti da lontano possono insegnarci di nuovo su noi stessi. E poi creare percorsi di condivisione e di accompagnamento umano: le relazioni vive che i profughi troveranno tra di noi saranno una scuola di umanità, un modo per testimoniare i valori in cui crediamo. Non deve stupire allora l’invito di tanti vescovi in questi giorni ad attivare le risorse locali dentro percorsi strutturati e non improvvisati: è perché nessuno possa ridere sarcastico come fece Sara.
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