Sotto quota trecento, finalmente. Da nemico pubblico numero uno, il differenziale fra i titoli di Stato italiani e tedeschi a dieci anni, il famigerato spread che ha condizionato la politica monetaria dell’Eurozona e la politica (non solo economica) italiana negli ultimi due anni, ha infranto una soglia tecnico-psicologica significativa, viatico per una discesa ulteriore. Risultato lungamente atteso, per quanto non ancora sufficiente, che sposta l’Italia e il suo fardello di debito in una zona di sicurezza ancora più lontana dal burrone dell’insolvenza.Gli interventi della Bce e il pur farraginoso salvataggio della Grecia hanno di certo contribuito a distendere le tensioni sui mercati. Ma è altrettanto innegabile che il durissimo processo di risanamento dei conti pubblici avviato dal governo Monti abbia fatto la sua parte. Soprattutto nel recupero di credibilità - leggasi "fiducia" - da parte degli investitori internazionali, che hanno ripreso a comprare i nostri titoli dopo una fase in cui se ne liberavano quasi fossero tizzoni ardenti, facendone crollare i prezzi e schizzare i rendimenti. Il merito principale del decreto salva-Italia è proprio quello di aver scongiurato il rischio di un ritorno alla lira, azzerando un "premio di conversione" che per troppo tempo ha surriscaldato il rendimento dei Btp probabilmente di 100 punti base. All’ultima asta il Tesoro ha già beneficiato di questo dividendo di credibilità riconquistata. Dai massimi toccati nel novembre 2011, il costo del debito si è ridotto addirittura del 3,11%, una gigantesca boccata d’ossigeno. E il differenziale sotto i 300 punti ne è la rappresentazione plastica.In questi stessi giorni, tuttavia, la Bce ha diffuso i dati sull’altro spread, quello che pagano le imprese per finanziarsi: lo spread dell’economia reale. Ebbene, il costo dei finanziamenti bancari è rimasto oltre il 5,63%. A un risparmio del 3% per lo Stato, ne corrisponde uno di venti centesimi di punto per le imprese. Non solo: le erogazioni in questo lasso di tempo sono diminuite di quasi 40 miliardi e l’arsura creditizia rischia di tramutarsi in una stretta mortale.Molte aziende, cioè, come l’Italia un anno fa, si trovano tuttora vicinissime al ciglio del crac. Ci si era in parte illusi, probabilmente, che la sola riduzione del differenziale per i Btp potesse liberare risorse per le imprese. Ma il virus del 'credit crunch', la stretta creditizia, appunto, ha subito in questi mesi una mutazione genetica: se prima le banche non prestavano soldi alle imprese soprattutto perché schiacciate a loro volta dalla bolla del debito pubblico e costrette quindi a rinforzarsi sotto il profilo patrimoniale, ora non aprono i rubinetti frenate dalla paura di non veder tornare i soldi indietro. Le sofferenze bancarie hanno sfiorato a settembre il picco dei 120 miliardi.Un nuovo circolo vizioso, dunque, molto simile a quello in cui è rimasto incastrato il debito pubblico. In questo caso, però, la liquidità non riesce a raggiungere le imprese più che i bond governativi. Ecco allora un obiettivo essenziale per la fasedue su cui si dovrebbe lavorare. Non solo, come dichiarato ieri dal premier, da perseguire per riportare il differenziale Btp-Bund a 287 punti, «l’esatta metà del livello a cui l’ho ereditato ». Se si vuol far ripartire l’economia, cioè, è indispensabile abbattere anche il secondo spread, non automaticamente - questa l’illusione - legato al primo. Uno "spread minore" che divora insieme alle imprese anche i posti di lavoro. Quota trecento o quota 287, in tal senso, sono solo un punto di partenza, non di arrivo.
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