A dicembre è calato il gelo sull’occupazione. Dopo una primavera di ripresa, i posti di lavoro hanno ricominciato a diminuire già da agosto e il 2011 si è chiuso con solo 22 milioni e 900mila persone che lavorano e ben 2 milioni e 243mila senza un posto. La disoccupazione all’8,9% segna così il nuovo record decennale, ma ciò che preoccupa davvero è la quota di giovani che non riesce a trovare un’occupazione, inchiodata al 31%.Il peso della crisi che si è scaricato in particolare sui più giovani è un fenomeno comune a tutta l’Europa. Solo da noi, però, assume proporzioni così eclatanti e preoccupanti. Se si esaminano i dati comparati, infatti, si può verificare come di norma la disoccupazione giovanile sia circa il doppio del tasso generale (la media dell’area euro è rispettivamente del 21,3% e 10,4%). In Italia invece si arriva a sfiorare addirittura il quadruplo. Non stupisce perciò che l’Unione europea abbia deciso di accendere un faro su una questione divenuta assolutamente prioritaria. Tanto da convincere il presidente Barroso a inviare ieri una lettera a otto Paesi – fra cui il nostro – nella quale si propone «un’attività in team» per «combattere questa sfida fondamentale» e arrivare a risultati concreti entro aprile. Come? Le linee principali indicate sono due: il sostegno alle piccole imprese da un lato e, dall’altro, «misure specifiche a livello di politiche e di bilancio per la creazione di nuovi posti e la formazione dei giovani, cercando di conciliare domanda e offerta di competenze e di arginare l’abbandono scolastico». L’indicazione della chiave di volta per costruire il futuro dei giovani dunque è chiara: sta nel migliore raccordo tra istruzione e lavoro. Nella formazione come parte integrante dell’attività lavorativa, che arrivi anzi ad essere "il" lavoro dei ragazzi al loro ingresso nel mercato. E che possa anche fungere da alternativa all’abbandono scolastico e all’inattività, che oggi è il destino segnato di altre 2 milioni e 200mila persone in Italia.La risposta, allora, è assai più vicina di quanto non si creda e si chiama «apprendistato», nelle sue tre forme di alta formazione, professionalizzante e per il completamento del diritto-dovere all’istruzione. Un contratto insieme "flessibile", perché può essere rescisso alla fine dei primi 3 anni (ma con penalizzazioni economiche); "tutelato", perché a tempo indeterminato e ricco di ore di formazione; "agevolato", grazie al forte sconto previsto sui contributi. Non per caso proprio sull’apprendistato – assieme a una migliore istruzione tecnica – ha da tempo puntato la Germania. Col risultato di essere oggi l’eccezione positiva dell’Europa con i due tassi di disoccupazione – 7,8% quello giovanile, 5,5% il generale – che non solo sono tra i più bassi del continente ma soprattutto tendono a coincidere.Alla vigilia della trattativa fra il governo e le parti sociali – che sarebbe bene allargare quantomeno alle agenzie per il lavoro e alle associazioni dei parasubordinati – il messaggio che arriva dall’Europa e dai dati Istat indica dunque che non c’è tanto da immaginare una nuova architettura contrattuale. Che la risposta non sta in qualche modello teorico calato dall’alto o in forzature improvvise sul piano del diritto. È invece già scritta nelle nostre norme. Va solo attivata con uno sforzo comune, davvero convinto, da parte di chi sul mercato del lavoro opera tutti i giorni.