L'aula di Montecitorio gremita e composta, come nelle grandi occasioni. Applausi, molti, caldi, per le parole del presidente. Parole belle, ponderate, quasi, si potrebbe dire, accoglienti: come pensate per includere il Paese intero, con le sue differenze e i suoi travagli, e portarlo idealmente in quell’aula. Siamo abituati a un Parlamento spaccato e frammentato, siamo abituati agli scontri e agli insulti; e anche sappiamo che quei deputati e senatori sono espressione solo di una parte del Paese – perché in molti, ormai, nemmeno vanno più a votare. Eppure la faccia e le parole di Sergio Mattarella producono su chi sta ad ascoltarlo una commozione: perché riescono a risvegliare un sentimento di unità. Un’unità, dice schiettamente il presidente, «difficile, fragile, lontana» e insidiata dalla crisi con le sue crescenti povertà. Eppure un’unità che occorre ritrovare. Altre parole, l’assemblea applaude ancora. Molte volte. Fa uno strano effetto, questa concordia fra uomini normalmente tanto divisi. Ma sarà vera, ti chiedi, o avrà ragione il corsivetto di un militante sul blog di Grillo, che insinua che gli onorevoli applaudono solo perché ora si sentono il posto garantito? Commento cinico, e però sai che anche questo stanno dicendo nei bar. E però dalla faccia e dalla voce di Mattarella emana qualcosa che tiene avvinto chi ascolta. Quella mitezza forse, cui non siamo più abituati. La fermezza che indovini dietro agli occhi chiari. E quella volontà di includere tutti, perché non sia estraneo nessuno. E’ l’accenno alle nuove forze politiche emerse in Parlamento, e ai giovani deputati, e alla loro capacità di indignazione, cui Mattarella chiede di farsi costruttiva capacità di cambiare.È la coscienza del dramma che si consuma nel Mediterraneo e lascia ogni giorno sulle coste nostre, ma coste anche d’Europa, uomini, donne e bambini, in fuga e sfiniti. È, soprattutto, l’immagine finale, che guarda fuori dall’aula, alle strade italiane. «Il volto della Repubblica – dice il presidente – è quello che si presenta nella vita di tutti i giorni: l’ospedale, il municipio, la scuola, il tribunale...».Vero. La Repubblica, agli occhi nostri, è in quegli edifici grandi, spesso vecchi, sulla cui facciata sventola, magari ingrigito e sfilacciato, il tricolore. Sono le aule dei nostri figli, le solenni scale dei tribunali, le sale d’attesa degli ospedali. Posti in cui andiamo per chiedere qualcosa di importante: maestri e professori degni, e giudici capaci di giustizia, e medici che ci sappiano curare. La Repubblica è anche nelle facce che incontriamo in quei corridoi. Dove andiamo trepidanti, sapendo le lungaggini della burocrazia e l’affanno degli sportelli sovraffollati – oppure l’indifferenza che raggela. La Repubblica abita lì, e noi ne abbiamo bisogno, e insieme ne proviamo diffidenza e amarezza, troppo avendo saputo di corruzioni, sperperi, inefficienze.E tuttavia Mattarella, i suoi occhi trasparenti, le parole misurate e quasi succinte – come avesse voluto evitarne scrupolosamente qualsiasi di inutile – sortiscono in molti di noi che stiamo a ascoltare una commozione cui, stupiti, cediamo. Qualcosa di simile a ciò che prende ascoltando l’inno di Mameli: per quanto disincantati siamo, si affaccia tenace la consapevolezza di una comune storia e appartenenza.Avviliti dai vizi e dalla inconsistenza di questa Italia, sfiduciati come siamo in tanti, il volto e l’espressione di questo giurista siciliano tuttavia ci hanno costretto a starlo a ascoltare. A desiderare di credergli. A pensare che forse possiamo sperare.Sono i richiami a ciò che ci tiene insieme – mentre sempre fra noi parliamo di ciò che divide. Il nome del piccolo Stefano Taché, ucciso nell’attacco terrorista alla Sinagoga di Roma, nel 1982: «Aveva solo due anni. Era un nostro bambino», dice Mattarella, ed è bello quell’accento – «nostro», figlio di tutti noi. Bello perché ricorda che, ancora, siamo un popolo. E allora la sfiducia con cui guardiamo all’Italia, da amarezza verso gli "altri", si converte nella coscienza che l’Italia siamo anche noi. Serve, dice il Presidente, «la tenace mobilitazione di tutte le risorse», perché la democrazia non è una conquista definitiva, ma si fa ogni giorno. Ogni mattina, di nuovo. (Mentre, oscure ma vicine, incombono spaventevoli minacce di nemici che vorrebbero cancellare la nostra civiltà).E quindi siamo rimasti a guardare la faccia di quest’uomo che dicono della Prima Repubblica, con un po’ di speranza che spingeva per farsi largo nella nostra stanchezza di italiani della Seconda. Ingenui, sentimentali, sciocchi? Siamo abituati a dubitare e diffidare. Ma non concedendo fiducia a nessuno non si vive, non si va avanti. Lasciamo allora che la faccia mite di quest’uomo salito al Quirinale ci spinga, singolarmente, a sperare.