mercoledì 5 marzo 2014
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Il bicchiere è mezzo pieno perché, in tempi di grave discredito per le istituzioni, l’assemblea della Camera è riuscita a evitare la vergogna di non onorare con un dibattito l’accorato messaggio del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sull’emergenza carceri. La metà vuota del bicchiere è rappresentata dall’enorme ritardo con cui ciò è avvenuto: cinque mesi.È vero, nel mezzo ci sono stati un cambio di maggioranza, una crisi di governo e il varo di un nuovo esecutivo, oltre ai tanti consueti "fuoriprogramma" (potrebbe sembrare un ossimoro, purtroppo non lo è) di questa nostra Italia senza pace. Ma, non ci stancheremo mai di scriverlo, quella del sovraffollamento e delle condizioni carcerarie non è e non può essere considerata una questione di serie B. È invece un’urgenza che investe la dignità di decine di migliaia di donne e di uomini, detenuti e operatori nei nostri istituti di pena, che non sono mai numeri di una statistica, e mette in gioco la possibilità di chiamare ancora il nostro uno Stato di diritto.Per il momento, e non da ieri, questa possibilità sembra in tutta franchezza sospesa per molti motivi, inerenti non soltanto l’esecuzione delle pene ma anche il processo penale e quello civile. Ieri la presidente della commissione Giustizia di Montecitorio Donatella Ferranti (Pd) ha assicurato, aprendo il dibattito sul messaggio di Napolitano, che «siamo sicuramente sulla buona strada» per portare il numero dei detenuti in carcere sotto il livello della capienza massima regolamentare, che è di 47.857. Il problema è che la strada, seppur «buona», è stretta e lastricata di «se».Il traguardo ideale, proprio perché stiamo parlando di persone, sarebbe ovviamente... ieri. Quello fissato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo è il 28 maggio: tra 83 giorni, se il problema non sarà risolto, i giudici di Strasburgo cominceranno ad applicare la sentenza-pilota "Torreggiani e altri Vs Italia" dell’8 gennaio 2013. Riconosceranno, cioè, il diritto a un risarcimento in denaro a tutti i reclusi (prevedibilmente tanti) che ricorreranno per «trattamento disumano o degradante». I numeri non inducono all’ottimismo, visto che venerdì scorso il numero dei detenuti si attestava a 60.828. Ancora (almeno) 13mila di troppo. Non a caso la fiducia della relatrice Ferranti è agganciata a due auspici: che le Camere approvino «entro marzo la riforma della custodia cautelare e il provvedimento sulla messa alla prova e sulla detenzione domiciliare»; che «subito dopo», ovvero in aprile, il governo dia «un quadro complessivo ed effettivo» degli interventi di politica carceraria.

Tanti «se», appunto. Ma poniamo anche che tutto vada per il verso giusto. Ci troveremmo a un mese o poco più dalla scadenza europea con tutte le carte già giocate. Indulto e amnistia infatti – per eccessiva frammentazione, carenza di volontà politica e ragioni di opportunità – sembrano interventi fuori dalla portata di questo Parlamento. Né c’è da sperare nella creazione, a breve, di altri spazi di detenzione tramite la costruzione di nuovi edifici o la ristrutturazione di quelli esistenti.Insomma, per adesso le celle sono ancora troppo piene. E il bicchiere, si diceva, lo è solo per metà. Reale, per il momento, resta il rischio di doverlo riempire a fine maggio con una mistura amara: un’ulteriore perdita di credibilità internazionale del nostro Paese (e davvero non se ne avverte il bisogno) mescolata con milioni di euro da impiegare in risarcimenti (idem come sopra). Perciò chi deve fare i conti li faccia bene. Anche quei 156 deputati che ieri mattina hanno disertato dibattito e votazione.

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