Il
panetùn è il dolce simbolo di Milano. Non mette d’accordo tutti, come è nella natura della città che lo ha inventato, ma quando è di alta qualità non c’è proprio pandoro che tenga. Il panettone Cova appartiene alla storia del capoluogo ambrosiano, a uno dei luoghi dove hanno preso corpo le 5 Giornate e la ribellione contro lo straniero, e non ci si dovrebbe meravigliare se un gigante straniero del lusso, il gruppo francese Lvmh, ha deciso ora di mangiarsene una bella fetta acquisendo la maggioranza della società che lo produce da quasi due secoli e che gestisce la nota pasticceria di via Montenapoleone. È veramente un pezzo di milanesità che passa di mano, anche se dall’esterno tutto sembrerà come prima. O forse sarà meglio di prima. Il senso di operazioni come questa è proprio quello di permettere a realtà familiari di essere dotate di quei mezzi o di quelle competenze di cui sono deficitarie per compiere un salto di qualità ancora più importante nei mercati internazionali. L’anima e la tradizione vengono garantite dalla presenza della famiglia, tutto il resto lo mette il colosso straniero. Lvmh agisce così. Restando all’Italia lo ha fatto con Fendi, con Bulgari, con il marchio Pucci. Gioielli del made in Italy, marchi nati dal talento e dalla creatività di un fondatore, custoditi da una famiglia, e che "a un certo punto" hanno bisogno d’altro. Il nodo è capire quando si arriva a quel punto, perché, e che cosa serve di più. Ed è qui che la nostalgia lascia il posto ad altre considerazioni. Non può essere un caso che periodicamente un pezzo prezioso del genio italico cambi nazionalità. Sempre in tema di lusso e di francesi, alla Kering (ex Ppr) di François Pinault, sono già andati i marchi Gucci, Pomellato, Brioni, Bottega Veneta e Sergio Rossi.Cambiando settori, ma non nazione, si può ricordare che Lactalis si è bevuta la Parmalat e prima la Galbani, che Edf controlla Edison, Carrefour i Gs, Bnp Paribas la Bnl. Valentino ha preso invece la via del Qatar, grandi fette di alimentare italiano, come la Star e i marchi dell’olio, sono finite in Spagna. È normale, perfettamente naturale, in un mercato aperto e in un mondo globalizzato, avviene ovunque. C’è anche un’Italia che compra, e che si espande all’estero, pur se meno visibile. E comunque vi è giustamente chi rileva che se siamo desiderati e conquistati è un grande segno di vitalità, di inventiva e di capacità di attrazione. La costante di tante operazioni di acquisizione, tuttavia, conduce a una riflessione meno serena. A delinearsi è l’immagine di un made in Italy di piccola e media dimensione che da solo non riesce ad andare oltre, o è incapace di governare la crescita. Il mercato globale del lusso vale più di 200 miliardi di euro, e anche quest’anno nonostante la crisi promette un’espansione importante del giro d’affari. Per vivere e prosperare, un’impresa affermata, un marchio noto, deve però essere in grado di garantirsi dalle vendite all’estero molto più della metà di quello che incassa. La realtà è che in Italia non ci sono i capitali per rischiare e per giocare un ruolo da protagonisti; ma soprattutto sembra mancare drammaticamente la capacità manageriale per gestire la complessità, l’espansione e la dimensione globale. Una classe dirigente non si è formata, e il grosso della componente imprenditoriale non ha la forza e il coraggio necessari. Oppure quando si muove diventa predona, guidata dalla peggiore politica, con il solo obiettivo di spolpare la preda – fosse anche un campione nazionale. O cede, sedotta dalla comodità della rendita. Ogni singola operazione va valutata per quello che è e per il bene che può produrre. Ma quando l’insieme rischia di trasmettere la sensazione di vivere in un territorio arreso alla conquista ci si dovrebbe chiedere quanto questo sia la conseguenza di un declino e quanto invece ciò contribuisca a rendere la crisi una circostanza ineluttabile.