«Non ci sarebbe bisogno ch’io mi mettessi a provare la lunghezza, per non dire l’eternità delle liti, praticata ne’ nostri tempi». Rileggo questa osservazione, ovvia e banale e scontata, e la trovo più amara e sconsolata al pensiero che «i nostri tempi» di cui parla l’autore, Ludovico Antonio Muratori, erano per lui quelli della prima metà del Settecento. Quasi tre secoli dopo, con tante rivoluzioni progressive (culturali, politiche, giuridiche, tecnologiche, informatiche) la riascolto dentro l’ingorgo di una giustizia che non si fa perché è un groviglio infinito e una interminabile avventura. Cinque milioni di processi civili da decidere sono una palla di piombo più preoccupante del debito pubblico, perché il "debito di giustizia" è la sventura di Stato.Malanno antico, e non solo italiano. Ma nel confronto col resto del mondo, restiamo nettamente perdenti, e con vergogna: qualche anno fa il presidente della Cassazione citava la graduatoria che ci vede al 151° posto nel mondo, dietro l’Angola, il Gabon e la Guinea. Ma adesso il pacchetto giustizia appena approvato annuncia che risaliremo la china. Risaliremo?Primo gradino l’arretrato, una montagna. In passato le abbiamo provate tutte, le soluzioni d’emergenza, persino convogliando tonnellate di carte processuali alle "sezioni stralcio" dei tribunali, e reclutando una specie di bracciantato giudiziario, per smaltirle. Una sconfitta addomesticata, non una rimonta. Oggi la nuova medicina che si propone è l’arbitrato: si trasloca la contesa dai tribunali a una sede "privata", negli studi degli avvocati, che la decideranno come arbitri. Una buona idea, di per sé, per una politica deflattiva, che scolma il traffico di un’autostrada ingorgata sul reticolo fitto delle strade di campagna. Sempreché il dibattito e la fatica decisionale conservi per intero il suo impegno, per tutti gli arbitri che fanno da giudici, di giustizia secondo verità. Buona idea è la "negoziazione assistita", che persino evita la lite in anticipo e si affida all’onesta trattativa degli avvocati contrapposti e collaboranti.Secondo gradino: cambiare il processo. Anche questo è un "già visto", già fatto e già rifatto. Un’altra delle idee fisse che cercano di risolvere il problema della casa cambiando la posizione degli arredi. A volte l’intento di accorciare i tempi ha inasprito le decadenze e le nullità, ha messo argini ma anche seminato ostacoli e angustie; ora i termini da stringere sono anche quelli degli adempimenti dei giudici; e la riduzione dei "tempi morti" estivi, assurdamente lunghi, è giusta cosa.Perplessità, invece, sul vezzo semplificatorio di alcune misure: il rito sommario per tutte le cause "semplici" non dovrà contagiare di sommarietà la giustizia della decisione. E c’è infine una semplificazione per le cause di famiglia (separazioni e divorzi) che sembra copiare la "delocalizzazione" dell’impresa: non si andrà più davanti al presidente del tribunale, ma davanti al sindaco del proprio Comune, quando non ci sono figli minori o disabili; sostanzialmente a dire "ci separiamo", o a dire "divorziamo" e finisce lì. Ma anche se ci sono figli minori o disabili, separazione e il divorzio si potranno fare "a casa", cioè nello studio degli avvocati e basterà che un pubblico ministero ci metta un visto, restando una mera possibilità che un giudice ci metta gli occhi sopra.Quest’ultimo capitolo sembra dare una connotazione bagatellare alle vicende delle fratture familiari (che coinvolgono ogni anno qualcosa come 80mila bambini) che la legge affidava all’attenzione di un giudice presidente di tribunale primariamente in ragione della delicatezza e della importanza delle stesse scelte dei coniugi, sul piano personale e sociale. Forse la prassi italiana ha reso questo passaggio (e la sua finalità conciliativa, espressa a tutte lettere nel codice) un rito vuoto, burocratico, formale; la
delocalizzazione in Comune o in studi forensi sembra dunque l’epilogo amaro di una
dimissione. Non toglierà ai giudici una gran fatica (le consensuali si facevano già con lo stampone), ma retrocede al volontarismo privato una vicenda di indubbia rilevanza sociale. La giustizia non se ne giova, il costume banalizza le svolte della vita e la famiglia già svalutata e impacciata da cento ostilità e indifferenze diventa ancor più precaria.