La Fabbrica Italiana Automobili Torino non c’è più. Al suo posto un gruppo multinazionale con 158 stabilimenti in quattro continenti, tre centri decisionali a Torino, Detroit e Belo Horizonte, la sede legale in Olanda, quella fiscale in Gran Bretagna, la quotazione nelle Borse di New York e Milano. Ha un presidente italiano che si chiama Elkann e un amministratore delegato dal cognome italiano, passaporto canadese e residenza in Svizzera. È insomma un gruppo globale – così come globale è oggi il mercato – e il suo nuovo acronimo è
Fca, Fiat Chrysler Automobiles.Certo colpisce l’asimmetria tra le possibilità di scelta di un’azienda e quelle di un normale cittadino (potessimo, sceglieremmo come sede fiscale la Francia del quoziente familiare) ma stupisce il pianto delle prefiche che lamentano la fine della "italianità" della Fiat. Come se nel 2000 fosse possibile progettare, produrre e distribuire auto solo in un Paese. Ed è incredibile come le lacrime più copiose vengano versate ora da coloro che - come i leader della Fiom, della sinistra, gli intellettuali ex di Lotta Continua, ad esempio - la Fiat hanno sempre contrastato, quando non addirittura combattuto, quale emblema di ogni male. Due crediamo invece che siano i nodi da sciogliere. Il primo attiene al
sistema-Paese. Il doppio trasferimento di sede, per quanto più simbolico che dagli effetti pratici immediati, è l’ennesima riprova che l’Italia non è attrattiva né per il suo sistema fiscale né tantomeno per l’impianto normativo sulle imprese. Le riforme sono sempre più urgenti, se davvero vogliamo che le aziende straniere investano da noi. In questo quadro un sistema giuridico più omogeneo per l’intera Europa eviterebbe una concorrenza sleale fra Paesi. Il secondo nodo è quello di
difendere l’occupazione in Italia. E qui ci giochiamo la sfida su tre fronti. Il costo del lavoro e il cuneo fiscale, certo. Ma più ancora: il saper fare e le relazioni industriali. Le fabbriche resteranno attive da noi tanto quanto la professionalità dei nostri operai resterà elevata, alta la qualità dei prodotti, insostituibile la creatività e l’eleganza del tratto dei nostri progettisti, forte il legame con le università e le scuole del territorio. E, non ultimo, collaborativo il rapporto tra azienda, sindacati, lavoratori.Gli alti lai, le accuse al Gruppo di aver "succhiato miliardi dalle mammelle dello Stato" servono a poco. Meglio ingegnarsi perché certi marchi non abbiano solo un vago sentore italiano, ma siano intrisi del profumo del lavoro nazionale, creativo e manuale, mettendoci del nostro.