Austerity. Fra i due moloch – la crescita da un lato, il rigore dei conti dall’altro – che azzannano e tengono prigioniera ormai da un quinquennio un’Unione Europea che unita lo è solo di nome e sempre meno di fatto, sembra aver prevalso anche questa volta la propensione al risparmio. Dopo una notte in bianco per i capi di Stato e di governo dei Ventisette asserragliati nel marmoreo falansterio del Consiglio Europeo a Bruxelles, l’arazzo del bilancio 2014-2020 temerariamente tessuto dal presidente permanente Herman Van Rompuy prende forma – con un tweet delle 16:22 di ieri – e conferma che la macchina europea, con i suoi immensi difetti e le sue terribili piaghe (l’elefantiasi burocratica, la letargia procedurale, l’autoreferenzialità di non poche decisioni) possiede un’innegabile deriva che la conduce inevitabilmente al compromesso. Un compromesso quasi sempre al ribasso, come quello sgorgato ieri dalle gole sfiatate dei ventisette leader (per la prima volta il budget settennale è più basso del precedente), ma ben sempre un accordo, che puntualmente scontenta molti e insieme – miracoli che solo Bruxelles riesce a compiere – accontenta tutti. I conti, ancora una volta, alla fine tornano.Ma come si è giunti a un’unanimità quasi miracolosa? Sarà stato lo spettro di un
fiscal cliff, un
baratro fiscale molto simile a quello paventato da Obama, se non si fosse raggiunto un punto d’intesa sul bilancio fra l’opposizione repubblicana e i democratici, agitato dal presidente dell’Europarlamento Martin Schulz. O, magari, la consapevolezza che un esercizio provvisorio in attesa di una nuova sessione di negoziati avrebbe aperto la porta a mesi di instabilità finanziaria e a un allarme diffuso sui mercati.In cifre, l’accordo sancisce un tetto di spesa di 960 miliardi di euro per gli impegni e 908,4 per i pagamenti effettivi, 34 miliardi in meno del precedente esercizio. Passa cioè la linea sostenuta dal britannico Cameron e dai Paesi nordici di tagliare le spese (infrastrutture, innovazione e ricerca: come dire, la modernità, il futuro) senza tuttavia mortificare più del dovuto la "linea della crescita", quella promossa e sostenuta dall’«asse latino» tra il francese Hollande (che conferma tra l’altro i fondi per la Torino-Lione), lo spagnolo Rajoy e l’italiano Monti. L’Italia, contributore netto, spenderà 500 milioni all’anno in meno riducendo quindi da 4.500 a 4.000 il proprio obolo comunitario e guadagnerà 3 miliardi sotto forma di sostegni alle aree colpite dalla crisi, alle Regioni meno sviluppate e allo sviluppo rurale, con diritto ad accedere ai fondi dedicati a quei Paesi membri (e il nostro lo è) in cui il tasso di disoccupazione giovanile supera il 25%, di cui 400 verranno assegnati al Mezzogiorno: in pratica, come ha sottolineato Mario Monti (che aveva fatto balenare anche la prospettiva di un veto), un saldo netto di 3,8 miliardi di minor spesa per l’Italia. Lodevolmente si assottiglia il budget per il pletorico e inutilmente faraonico dispositivo diplomatico retto da lady Catherine Ashton, la cui inefficacia sul piano internazionale ha avuto fin troppe conferme dal momento stesso della sua costosa nascita. Alle lodi che invariabilmente i leader si autoassegnano dopo la maratona di 25 ore non si associano numerosi gruppi parlamentari, in testa a tutti il Ppe, che giudica l’accordo raggiunto inaccettabile. E spetterà proprio all’Europarlamento approvare o respingere questo bilancio o chiederne modifiche radicali, il che implicherebbe un nuovo vertice straordinario. Un bilancio così risibile nella sostanza rispetto alla ricchezza reale della Fortezza Europa (vale solo l’1% del Pil complessivo), e pure così indicativo della crisi di fiducia in sé stessa che l’Europa non riesce a celare, neppure dietro alla cortina dei più riusciti compromessi.