C’è un’allarmante, se pure fortuita, sincronia con cui alla schiacciante affermazione elettorale del premier israeliano Benjamin Netanyahu della notte scorsa è corrisposta poche ore dopo la strage al Museo del Bardo di Tunisi, rivendicata dall’Is, che ha lasciato sul terreno 22 vittime. I due fatti, pur totalmente disgiunti l’uno dall’altro, contengono tuttavia il medesimo messaggio. Un messaggio che troppe volte il mondo occidentale ha preferito non ascoltare e altrettante volte ha derubricato come un danno collaterale, una specie di inevitabile pedaggio che le ricche democrazie avanzate sembrano tutto sommato disposte a pagare purché le si lasci in pace. Ma quel messaggio che strepita sotto traccia ci dice una volta di più che non è ammissibile continuare a ignorare il groviglio di problemi e di rischi che rigurgitano da quel Medio Oriente che da oltre un decennio è diventato un’area geograficamente vaga, politicamente instabile in cui le cui condizioni umane sono in molti casi inaccettabili. Un’area dove i confini di almeno quattro nazioni (l’Iraq, la Siria, il Libano, la Libia) sono ormai più virtuali che reali, dove l’esodo di masse imponenti di profughi ha drasticamente ridisegnato il profilo di interi gruppi etnici e di comunità religiose (soprattutto cristiane) e dove nuove e inafferrabili sigle del terrore esercitano un proselitismo che mina alle fondamenta ogni antico assetto e ogni nuovo e timido tentativo di modernizzazione e di progresso.La Tunisia è uno Stato fondamentalmente laico, che ha rifiutato di ancorarsi alla sharia come istanza giuridica fondamentale, il primo ad aver acceso 4 anni fa la scintilla delle "primavere" e tuttora unico fra le nazioni arabe a essersi dato una Costituzione che riconosce la parità fra uomo e donna. Accade non a caso qui che un commando terrorista assalti il Parlamento facendo strage e contemporaneamente attestando la fragilità di quel Paese e la porosità delle sue frontiere, per non dire dell’alto numero di proseliti del califfato che da lì provengono.Poche ore prima, sulla medesima sponda del Mediterraneo, Israele festeggiava la smagliante vittoria del premier uscente Netanyahu, che a dispetto dei pronostici della vigilia ha travolto l’avversario laburista Isaac Herzog e la sua alleata Tzipi Livni con una campagna elettorale che di fatto si è trasformata in un referendum sulla sua persona e gli garantisce ora il quarto mandato, probabilmente alla guida di una coalizione di partiti di destra. Il fronte progressista, i partiti che chiedevano un cambiamento radicale e la ripresa del dialogo con il mondo palestinese sono rimasti al palo, nonostante la buona affermazione del raggruppamento arabo-israeliano. Ma l’indiscutibile trionfo del leader del Likud non può farci scordare come la sua sia da tempo una sorda cavalcata contro la storia, che alcuni degli stessi alleati di partito hanno finito per criticare. Netanyahu ha vinto facendo leva su quel binomio che lega la paura al bisogno di sicurezza, un sentimento legittimo e umano che tuttavia preclude e interdice le eleborazioni ideologiche da cui era nato il sionismo delle origini. A suo agio nelle sembianze di un Leviatano (che come dice "Il libro di Giobbe" «fa ribollire come pentola il gorgo, fa del mare come un vaso di unguenti. Nessuno sulla terra è pari a lui, fatto per non aver paura»), Netanyahu si pone come l’unico autentico lord protettore di Israele, contribuendo così a rendere i suoi concittadini ancor più prigionieri di quella "hybris" che li fa sentire figli di un destino prescritto fin dalla notte dei tempi. Il risultato è la negazione dell’ipotesi di uno Stato palestinese, la promessa di sempre nuovi insediamenti, l’inosservanza dichiarata di qualunque accordo che Washington possa stipulare sul nucleare con l’Iran, il gelo con la Casa Bianca. In definitiva, non esattamente una promessa di pace.Dove abbiamo sbagliato, tutti quanti? E in che cosa? Con la Tunisia sicuramente noi europei siamo stati distratti e assenti, non abbiamo incoraggiato, protetto, difeso quella giovane democrazia faticosamente uscita dal medioevo arabo islamico. La stessa cosa accade con la questione palestinese. A dodici ore di distanza dai risultati elettorali Hamas stava già preparando un attentato contro Israele. La più eloquente dimostrazione che quella partita non possiamo più lasciarla in mano soltanto ai due aggressivi contendenti. Ci riguarda tutti.