Ci vuole certamente una giusta quantità di rispetto per chi, in questa fase cruciale di trattative condotte dal presidente incaricato Enrico Letta, manifesta il suo disagio, più o meno acuto, davanti alla prospettiva di ritrovarsi sia pur temporaneamente alleato in Parlamento con il suo peggior “nemico”. Quel “nemico”, per altro, coltivato assiduamente in due decenni di battaglie all’arma bianca, dialettica e piazzaiola, a colpi di invettive demonizzanti e di disprezzo impietoso. Quell’avversario in teoria irriducibile e tuttavia così spesso rivelatosi utile a garantirsi spazi politici di sopravvivenza o rendite di posizione pseudoideologiche. Rispetto, dunque, ma entro limiti ben precisi. Che poi sono quelli dettati ieri nuovamente da Giorgio Napolitano, quando da via Tasso, luogo simbolo della resistenza al nazifascismo, ha messo in relazione quei momenti tragici alle «giornate di un tempo di crisi» che stiamo vivendo. E ne ha tratto la triplice lezione da mettere in pratica per scongiurare quell’avvitamento istituzionale intravisto al momento di accettare il secondo mandato: «coraggio, fermezza e senso dell’unità ».Se questa è la ricetta, la prima rilevante dose di coraggio è quella che occorre per ammettere che troppo a lungo si è insistito nel percorrere sentieri impervi o nell’imboccare vicoli ciechi. E anche se la modestia è una virtù poco praticata nell’era del bipolarismo armato (oggi per la verità un po’ in odore di decadenza), prima di esercitarsi in raffiche di veti o in ultimatum programmatici, sarebbe necessaria un’attenta riflessione sui disastri che deriverebbero dall’ennesimo passo falso. In questi giorni si è poi molto discusso sulla capacità dei nuovi media di condizionare gli umori di vecchi e nuovi inquilini del Palazzo. E qualcuno si è spinto a teorizzare che d’ora in poi si dovrà sistematicamente fare i conti con la “web democracy”, indicata come nuova frontiera di un corretto rapporto fra cittadini e classe dirigente. Ma alla prova dei fatti è emerso che l’incidenza degli umori messi in circolo da blog e tweet era inversamente proporzionale alla debolezza dei destinatari.
Di qui il consiglio della fermezza, rivolto, sembra di capire, anzitutto a quanti, non molti giorni fa, salivano in fila al Quirinale per scongiurare il presidente uscente di cavarli dall’impaccio. È semplicemente impensabile che la barra della già complicata maggioranza in attesa di varo venga lasciata esposta ad aggiustamenti estemporanei, frutto di pressioni artatamente gonfiate, mediante giochi di specchi informatici senza effettivo riscontro.
Quanto al sentimento unitario, basterebbe trarre ispirazione dalla circostanza celebrativa, che ieri ha coinciso con la maratona negoziale tra premier incaricato e forze rappresentate in Parlamento per la formazione del governo. Il capo dello Stato è tra gli ultimi a poter essere sospettato di tiepidezza nella difesa dei valori che il 25 aprile riassume e trasmette alle generazioni venute dopo la sua. Eppure non ha avuto esitazioni, nel discorso a Montecitorio di lunedì scorso, a sottolineare «tassativamente la necessità di intese tra le forze diverse», richiamando l’esperienza di quasi tutti i Paesi europei, dove la disponibilità ad accordi tra protagonisti concorrenti e molto spesso contrapposti, quando davvero necessaria per la gravità delle emergenze da affrontare, non viene mai temuta come «segno di regressione ».Non crediamo che qualcuno possa ancora esprimere dubbi sul livello di drammaticità che la crisi italiana ha raggiunto. Non vogliamo pensare che ci sia ancora chi ritenga di poter lucrare vantaggi personali o di parte da un ulteriore peggioramento dello scenario economico, sociale e istituzionale. Veramente, come ha ricordato di nuovo ieri il presidente della Cei Angelo Bagnasco, «non si può più aspettare, la gente non può più attendere ». E sì, ci vuol proprio rispetto, quello giusto.