La vicenda Montepaschi dimostra che bisognerebbe uscire al più presto dall’eterna disputa sul «capitalismo municipale». La mappa degli interessi dei Comuni è da sempre variegata e non priva di zone oscure: nella giungla di partecipazioni societarie detenute dai sindaci, infatti, c’è di tutto e non è giusto fare di tutta l’erba un fascio. Ci sono progetti virtuosi e autentici carrozzoni, piccoli gioielli da tutelare e società che invece meriterebbero di fallire. La questione però è un’altra: la lunga sfida a distanza tra la Fondazione dell’istituto senese e i vertici della banca, in corso da mesi e destinata a chiudersi probabilmente oggi in assemblea, segna infatti il punto di non ritorno sui rapporti tra finanza e comunità locale, tra sviluppo e risorse necessarie per assicurarlo.È di «capitalismo di territorio» che dovremmo parlare nei prossimi anni, non di altro. Serve cioè un modello nuovo di credito a servizio delle esperienze locali, immune dai rischi del turbocapitalismo che tanto male ha fatto a una realtà come Siena e insieme distante dalle logiche di potere politico che finiscono per condizionare scelte strategiche e piani industriali. I casi positivi ci sono e hanno come minimo comune denominatore la responsabilità sociale d’impresa: ogni azione esercitata da manager e soci dovrebbe avere come fine ultimo la creazione di valore per il tessuto sociale e produttivo circostante. Il rischio, altrimenti, è che anche a livello locale, come è successo con Montepaschi, si ripetano gli errori commessi su scala globale.Il duello non è tra un capitalismo buono e uno cattivo, da mettere magari alla berlina quando fa più comodo. La sequela di errori del passato, in Toscana come altrove, non si può cancellare alzando le barricate contro il nemico invasore e soprattutto evitando una severa autocritica sul passato. Occorre ripartire da zero, mettendo da parte calcoli e convenienze. Per questo, serve al più presto un altro modello, che sia davvero a servizio delle comunità.