La secolarizzazione non è più quella di una volta. Quando incominciò, apparve come un impulso di emancipazione dell’umano che è comune a tutti, e sta a cuore a tutti. In essa, nonostante tutto, erano le potenzialità dell’umanesimo contenute nel seme cristiano che, in molti modi, venivano alla luce. E fornivano – persino tacitamente – il fondamento e il corredo etico delle virtù – umane, non solo civiche – che sono necessarie: il rispetto della persona, il senso del dovere, la disposizione della solidarietà, il pudore dell’intimità, la dignità del lavoro, l’amore del sapere, la fedeltà degli affetti, la cura della generazione, la responsabilità del ruolo.
Il programma del Sinodo mondiale dei Vescovi che sta per incominciare non usa mezzi termini, né troppi giri di parole. La secolarizzazione del legame sociale, intenzionata a perseguire l’obiettivo della giusta laicità della cosa pubblica, ha trascurato di alimentare questi fondamenti etici dell’umanesimo comune, lasciando sempre più spazio all’ideale dell’individuo che si fa da sé, senza dovere nulla a nessuno. Ne doveva scaturire, quasi spontaneamente, una nuova società di liberi e uguali. Non è andata proprio così. Ora siamo tra i cocci di un umanesimo fai–da–te. E non ne usciremo facilmente: in ogni caso, non senza la determinazione e il sacrificio che ci sono mancati. Anzi, di più. La «morte di Dio», che era sembrata l’ultima profezia della ragione adulta, ormai capace di garantirsi da sé l’alto profilo di una vita buona e di un umanesimo compiuto, «ha ceduto il posto a una sterile mentalità edonistica e consumistica, che spinge verso modi molto superficiali di affrontare la vita e le responsabilità».
Il cristianesimo deve essere capace di far diventare l’adorazione di Dio l’atto decisivo per la riconciliazione collettiva della ragione con l’umano. I due si sono persi di vista: il desiderio ha intermittenze deliranti, che in capo a qualche generazione promettono di diventare sub–cultura di tribalità predatorie. «La Chiesa sente come un suo dovere riuscire a immaginare nuovi strumenti e nuove parole per rendere udibile e comprensibile anche nei nuovi deserti del mondo la parola della fede che ci ha generato alla vita, quella vera, in Dio». La fede deve ritrovare l’amore di prima, e diventare capace di sostenere di nuovo la generazione e le generazioni, fino all’altezza di ciò che fa grande l’animo di un popolo. La Chiesa del Sinodo si rivolge in primo luogo ai credenti, chiedendo anzitutto a loro un serio esame di coscienza e un profondo cambiamento di mentalità. Neppure la fede va da sé. Noi stessi abbiamo cercato di aggiustarci un umanesimo che si adattava ai desideri e ai sogni, perdendo lo slancio e il realismo di una fede che riapre a Dio tempi e spazi della vita reale. La fede in Gesù Cristo non pianta fiorellini non–ti–scordar–di–me sul parabrezza dell’auto, non semina molliche come Pollicino. La fede ha radici semplici e possenti: sposta i massi che ostruiscono la strada verso Dio, colma le voragini per gli incauti seguaci del Pifferaio magico.
Il Sinodo dei Vescovi è deciso a imprimere una svolta alla vitalità della fede: a cominciare dei popoli che fecero l’impresa (e ora, quasi, se ne vergognano). La sfida, nondimeno, è affrontata per tutti. “Dio” non è un vocabolo del gergo ecclesiastico: è parola– chiave di un senso radicalmente comune, per uomini e donne all’altezza delle domande dei figli che nascono. Anche nel deserto.