sabato 15 febbraio 2014
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​A Matteo Renzi non è ancora stato conferito l’incarico di formare il governo e già ci si interroga su chi si incaricherà, soprattutto all’interno del suo partito, di fargli pagare cara questa scelta. Si tratta, naturalmente, di speculazioni maliziose, che però sono in un certo senso giustificate dai precedenti casi di azzoppamento di segretari e premier del centrosinistra per effetto soprattutto delle faide interne. Renzi tenterà, per giunta, di mantenere unite le funzioni di guida del governo e del partito, forse per evitare di fare la fine di Massimo D’Alema, che dopo pochi mesi a Palazzo Chigi si trovò in una situazione di isolamento e, dopo una sconfitta in votazioni regionali, non ebbe sostegno dalla nuova segreteria del suo partito e dovette passare la mano. Restituì poi la cortesia a Walter Veltroni, mettendolo in condizioni di dover lasciare la segreteria del partito dopo una sconfitta nelle elezioni regionali sarde. È comprensibile quindi che Renzi voglia guardarsi le spalle, ma in ogni caso non sarà agevole neanche per lui controllare le dinamiche autodistruttive che da tempo caratterizzano il suo partito e che, d’altra parte, egli stesso ha in un certo senso cercato di incanalare con la sua campagna di "rottamazione" di modi e volti della vecchia politica. La forza di Renzi risiede nell’ampiezza del consenso che ha ricevuto nella consultazione dei potenziali elettori del Partito democratico, assai più consistente di quello raccolto nelle votazioni riservate agli iscritti. Non sarà facile mantenere questo livello di popolarità nel momento in cui deve passare dall’indicazione di obiettivi di rottura e di rinnovamento all’attuazione concreta di questi propositi, peraltro con una compagine ministeriale e una maggioranza composite, e quindi attraversate da inevitabili tensioni. I fronti sui quali si può prevedere che si sviluppino azioni di logoramento sono vari, neanche troppo difficili da trovare a causa della complessità perdurante della situazione economica e soprattutto delle emergenze sociali e per il carattere particolare dell’intesa sulle riforme istituzionali ed elettorali stretta con Silvio Berlusconi. Le consultazioni europee e la redazione delle liste dei candidati offriranno una prima occasione per una verifica dei reali rapporti di forza interni, che non sono descritti fedelmente dalla larghissima maggioranza riscontrata sulla richiesta di dimissioni del governo di Enrico Letta al termine della riunione della direzione del Pd. Mandare Renzi a Palazzo Chigi, per una parte della minoranza interna che ha approvato la mozione, ha il senso di avviare un’operazione di lento recupero del controllo del partito, a cominciare dalle situazionilocali in cui conta più il peso degli iscritti e il sistema delle primarie appare meno incisivo.Solo se e quando questa "riconquista" avrà dato qualche effetto si profilerà un vero pericolo per il governo Renzi, che può essere messo in una situazione di blocco paralizzante dai gruppi parlamentari di maggioranza, com’è peraltro accaduto a quello di Letta, che per questo rinfaccia a Renzi di essere stato lui a far naufragare nella palude dell’indecisione il suo programma. L’unico vantaggio relativo di Renzi su Letta è che il governo del segretario sarà senza dubbio un governo di legislatura, non perché sia sicuramente destinato a durare per quattro anni, ma perché la legislatura non sopravviverebbe alla sua caduta. I parlamentari sanno quindi che far cadere il governo equivale ad affrontare un giudizio elettorale e, prima ancora, la selezione interna delle candidature, gestita dalla segreteria Renzi, se riuscirà a mantenere il controllo di ambedue i ruoli, come intende fare.L’ambizione di Renzi è, come ha detto egli stesso, al limite del possibile, ma anche l’iniziativa possibile dei suoi avversari interni rischia di essere considerata autolesionistica e respinta dal corpo del partito, che sembra piuttosto refrattario all’iterazione delle competizioni personalistiche che ne hanno caratterizzato la storia recente.
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