sabato 28 luglio 2012
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​È grande l’Ilva di Taranto. Grande quanto una cittadina, con i suoi 15 milioni di metri quadrati di superficie, 50 chilometri di strade, 200 chilometri di ferrovia, 190 chilometri di nastri trasportatori. E soprattutto con i suoi 11.500 "abitanti", quei lavoratori il cui futuro è oggi appeso al filo di una vertenza giudiziaria senza precedenti.Il siderurgico di Taranto è la prova vivente della vittoria della modernità e delle contraddizioni della postmodernità. Quando agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso, in piena industrializzazione forzata del Mezzogiorno, le grandi firme del giornalismo del Nord scendevano al Sud con i loro taccuini da riempire, l’acciaieria più grande d’Europa era una tappa fondamentale. Già avvicinarsi a Taranto, la città dei due mari, era una scoperta: un mostro d’acciaio fumante e ruggente era lì ad accoglierti. Un gigante d’acciaio che produceva acciaio per l’Italia del boom e per l’Europa. E lì dentro un popolo di formiche, che da bracciante si era fatto operaio. Che aveva scoperto la fatica e la dignità del lavoro in fabbrica e anche la certezza di una busta paga che il lavoro contadino, spesso saltuario e mal pagato, non poteva assicurare. In quegli anni, Taranto e la Puglia furono letteralmente proiettate nella modernità. E l’acciaio ne diventò la metafora. Ma venne presto il tempo delle "morti bianche", ogni anno a doppia cifra, come inevitabile prezzo da pagare per il benessere conquistato.Ora la postmodernità irrompe nella vita del più grande impianto siderurgico d’Europa, a reclamare i propri diritti e a presentare il conto. Un portato della postmodernità è certamente una rinnovata sensibilità per la salute dei lavoratori e degli abitanti che vivono in territori fortemente industrializzati, per la salvaguardia dell’ambiente dai danni arrecati da produzioni industriali duramente impattanti sul territorio circostante. E giustamente Taranto diventa l’archetipo di questa nuova dimensione del rapporto fra industria, lavoro, salute, ambiente e territorio. Non si può non vedere come è ridotto il quartiere Tamburi, sorto a ridosso dell’acciaieria, che sembra ridipinto dello stesso colore dell’Ilva. Ci hanno pensato le ceneri a renderlo di un uniforme e opprimente grigio scuro. Troppi uomini e donne si sono ammalati e sono morti per tumori e malattie legate al degrado ambientale. E poi il gravissimo problema della diossina, un autentico incubo, che anno dopo anno ha avvelenato mare e terra. In un raggio di almeno 20 chilometri oramai è impossibile produrre mitili e allevare bestiame.Dunque, in queste ore la Puglia ha fatto un salto: dalla modernità alla postmodernità. E le tocca trovare, certo non da sola, la giusta via d’uscita. In fondo, la postmodernità ha proprio in sé il germe della complessità che, in questo specifico caso, comporta la saldatura fra gli interessi della produzione e del lavoro con quelli della tutela della salute e dell’ambiente. Certo, c’è voluta l’iniziativa dirompente della magistratura che ha sospeso la produzione, per chiamare tutti gli attori alla responsabilità. Ma la postmodernità non esclude la ricerca di equilibri sostenibili, anzi in qualche modo li pretende. A partire dalla consapevolezza espressa dall’arcivescovo di Taranto, Filippo Santoro: «L’Ilva è una questione nazionale». E come tale va affrontata, cioè con il concorso generoso di tutti, perché questo non è un pezzo di industria da dismettere, tutt’altro. Occorre, piuttosto, renderlo compatibile con le esigenze di tutela dei lavoratori, della popolazione e dell’ambiente. Lo Stato e la Regione lo hanno capito, firmando l’accordo da 336 milioni di euro per la bonifica di Taranto. Ora si tratta di offrire garanzie certe, che anche la magistratura dovrà valutare per la sua parte, perché già da domani la bonifica cominci. Basterà? Anche la postmodernità esige saggezza, prudenza e realismo. Doti necessarie per non esacerbare gli animi di chi non può convivere con una scelta drammatica: morire di lavoro o di mancanza di lavoro.
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