Khaled Asaad aveva passato la metà dei suoi 81 anni a studiare e proteggere Palmira, il sito archeologico patrimonio dell’Unesco conquistato a maggio dall’Is. Lo avevano catturato un mese fa, Asaad, e per un mese interrogato, probabilmente torturato, per estorcergli il nome del luogo in cui, con altri, poco prima dell’arrivo dei miliziani jihadisti, aveva nascosto i tesori del sito. Voleva salvarli alla furia di cui già gli uomini del Califfato hanno dato prova in Iraq, all’odio cieco con cui, in nome del loro Dio, distruggono ciò che chiamano 'apostata'. E ora il corpo dell’anziano archeologo, decapitato e appeso a una colonna di Palmira, è l’ultimo scempio di cui ci arriva notizia dalla martoriata Siria. Non il peggiore, giacché sappiamo di migliaia di assassinati, perseguitati, in fuga; e tuttavia la esecuzione barbarica di un ottuagenario che aveva fatto della bellezza dei resti di Palmira la sua ragione di vita ha il sapore emblematico di un nuovo affronto del Califfato al mondo civile. Già a luglio l’Is aveva scelto il teatro romano di Palmira come palcoscenico per l’esecuzione di venti soldati dell’esercito siriano, fucilati da altrettanti ragazzini davanti al pubblico seduto sui millenari gradini di pietra. C’è un macabro gusto scenografico che collega questi assassinii: il piacere di spargere sangue in luoghi che, anche solo a vederli in una fotografia, evocano le origini della cultura che per millenni si è sviluppata tra l’Occidente e l’Oriente. Palmira poi, già menzionata dagli Assiri duemila anni prima di Cristo, citata nell’Antico Testamento, Palmira, la 'Sposa del deserto', alla cui oasi si abbeveravano le carovane che dall’Oriente, lungo la Via della seta, arrivavano, sfinite e assetate. Palmira con i templi di Baal e delle antiche divinità pagane, cui con l’Impero romano si aggiunsero l’Agorà e il teatro. Straordinario crocevia di culture, persiana, greca e occidentale, che sopravvive nelle pietre dorate, sotto al cielo terso del deserto. Di questo mondo della memoria Khaled Asaad era stato amorevole custode; devoto alla Bellezza, che di sé fra quelle rovine aveva impresso un poderoso segno. Devoto, in fondo, all’uomo, ai segni lasciati da migliaia di uomini in quel luogo dove miracolosamente, nel deserto, l’acqua sgorgava, abbondante. Luogo di vita dunque, meta agognata dai mercanti incolonnati con i cammelli, sotto al sole torrido. Palmira, in Siria, è l’icona della vita sorta dalla polvere, cantata nelle pietre, tramandata nelle generazioni. E il vecchio Assad della Sposa del Deserto si era fatto quasi sacerdote: proteggendo, mentre il nemico avanzava, ciò che poteva, di quanto gli era così caro. Era ormai in pensione, ma, come accade quando il lavoro è una passione, era rimasto al suo posto. Aveva cercato di strappare le statue dalla furia iconoclasta, ma anche dalla avidità grifagna dei tanti, fra i miliziani, che dei reperti più piccoli e trafugabili stanno facendo un ricco mercato. Lo hanno lasciato, Asaad, il vecchio corpo straziato, appeso a una colonna del suo mondo. Come uno schiaffo a noi, che stiamo a guardare: un vecchio, e nessuna pietà per i suoi anni, e un massacro esibito in un crocevia della memoria, in un tempio a cielo aperto alla Bellezza – sotto ai vari nomi con cui, nei secoli, gli uomini la hanno cercata e amata. È ben studiato, il messaggio da Palmira, tanto quanto la esecuzione di massa nel teatro ad opera di ragazzini; e ci dice di un’avversione radicale a tutto ciò in cui, come comunità civile di uomini, crediamo. Quel vecchio e i suoi 81 anni di amore alla Bellezza, come un cocciuto, fiero testimone. Ma noi, Occidente, stiamo a guardare, inerti – e, forse, cerchiamo ancora di non capire.
Khaled Asaad, decapitato dai jihadisti, aveva passato la metà dei suoi 81 anni a proteggere una città simbolo della civiltà