La risposta al terrorismo passa anche dalla revisione di un modello di sviluppo che genera scarti Non sto regalando e non regalerò neanche un minuto della mia vita, dei miei progetti, alla paura del terrorismo. Mi piacerebbe che fosse questa la frase che ognuno di noi si sforza di interiorizzare e di ripetere in questi giorni. Ma vedo molte persone profondamente scosse e turbate. Ognuno è libero di prendere le proprie decisioni ma il terrorismo vince se cambia le nostre abitudini e distoglie le democrazie occidentali dall’agenda che avevano prima degli attentati di Parigi. Un’agenda ambiziosa che si proponeva e si propone di progredire sul fronte della lotta a disoccupazione e povertà, che deve affrontare la drammatica sfida della sostenibilità ambientale (proprio a Parigi tra qualche giorno) e che lotta ogni giorno nel nostro Paese contro i problemi delle inefficienze e della corruzione. Il rischio di abbandono dell’agenda del progresso buono dell’umanità è un’altra delle conseguenze nefaste del clima di guerra. La psicosi, anche se umanamente comprensibile, è per molti versi anche irrazionale. La probabilità di morire per un attacco terroristico è di gran lunga inferiore a quella di essere vittima di un incidente casalingo o stradale. In questo drammatico momento che stiamo vivendo si fronteggiano due visioni della vita completamente opposte. Da una parte una cultura occidentale sempre più scientista ed efficientista che ci ha viziato e nella quale pretendiamo di vivere a rischio zero eliminando ogni possibile pericolo per le nostre vite. Dall’altra, una esigua minoranza di folli che pensano che mettere in gioco la propria vita distruggendo quella degli altri sia la porta per accedere a una vita migliore. Atteggiamenti e visioni che di fatto implicano che noi siamo interamente proiettati nell’aldiquà e loro interamente nell’aldilà. Quello che sta accadendo e, in generale, il fascino che l’integralismo esercita anche presso molti dei giovani che vivono nelle
banlieue deve però farci capire che stiamo usando paradigmi sbagliati per leggere la realtà. Una visione riduzionista dell’economia porta il pensiero dominante a ritenerci
homines economici, ovvero individui, slegati da contesto e relazioni, la cui felicità dipende unicamente dalla crescita del proprio benessere economico. L’homo
economicus è in realtà un essere contro natura, un pesce che si ostina a vivere fuori dall’acqua delle relazioni. L’uomo è piuttosto un cercatore di senso perché la prima operazione che tutti, implicitamente o esplicitamente facciamo nel momento in cui ci alziamo la mattina è trovare un senso alla nostra vita che motivi il nostro agire. Dobbiamo pertanto interrogarci se il mondo che abbiamo costruito, un mondo che produce moltissimi scartati ed esclusi, che umilia la dimensione per noi più importante, quella del lavoro, subordinandola alle esigenze dei consumatori e degli azionisti, non produca troppi 'poveri di senso'. È di questi mesi negli Stati Uniti la forte protesta dei
fightfor15, delle centinaia di migliaia di lavoratori dei fast-food che chiedono salari dignitosi e almeno 15 dollari l’ora contro i 7,25 che attualmente percepiscono come minimo. E che producono il circolo vizioso di cibo spazzatura a basso prezzo e lavoratori sottopagati che possono permettersi solo quel tipo di cibo. È questa la civiltà ricca di senso che siamo stati capaci di creare per molti dei nostri simili? Lo stupore di fronte a fatti 'irrazionali' di molti dei vincenti che scrivono sui giornali forse sarebbe minore se per un attimo si calassero nei panni dei tanti diseredati prodotti dalla nostra 'civiltà'. A nessuno di coloro che vivono una minima ricchezza di senso (qualità della vita di relazioni, prospettive professionali, benessere economico, valori spirituali e religiosi sani, soddisfazione nelle dimensioni di gratuità e fraternità) verrebbe infatti mai in mente di distruggere la propria vita e quella degli altri. Ma è statisticamente assai probabile che una minoranza anche molto piccola tra le centinaia di migliaia di disperati, di scartati e poveri di senso che popolano le nostre periferie venga lusingata da un’ideologia nefasta e totalizzante che improvvisamente riempie e risponde a quella domanda di senso calpestata e frustrata oltre che indirizzata verso modelli che avviliscono le aspirazioni più profonde dell’animo umano. Alla sfida del fascino dell’integralismo violento per i tanti diseredati dei nostri sistemi economici si risponde anche aumentando la ricchezza di senso delle nostre civiltà (esattamente il contrario di quelli che propongono di cancellare simboli religiosi per non urtare sensibilità). Oltre a tutte le misure di sicurezza e difesa necessarie, se la nostra civiltà e la nostra cultura vogliono togliere acqua ai fondamentalismi e ai terrorismi devono curare questa malattia interna ed esterna. La violenza genera altre violenze, lutti, rancori e desideri di vendetta. Continuiamo vincendo la paura anche in questi giorni bui e difficili a costruire le fondamenta di una civiltà ricca di senso e di capitale sociale per lasciare un futuro migliore ai nostri figli.