«La Chiesa deve cercare l’incontro con l’uomo soprattutto sulla via della sua sofferenza». Nella foto l'11 febbraio 2000 Giovanni Paolo II con un malato - Archivio Avvenire
Tra il 1991 e il 1992 tutti avevamo notato quel tremito che scuoteva la mano di Giovanni Paolo II, ma nessuno aveva dato troppo peso alla cosa. Sì, in Sala Stampa vaticana se ne parlava spesso, ma in mancanza di riscontri e di conferme la cosa finiva lì. Poi, a maggio del 1994, un giornale spagnolo pubblicò un articolo in cui si diceva che quel tremore del Papa fosse dovuto al morbo di Parkinson. Joaquin Navarro Valls, direttore della Sala Stampa, smentì però ufficialmente la notizia, che comunque continuò a girare.
Due anni dopo, durante la visita apostolica in Ungheria, lo stesso Navarro Valls, però, fece una mezza ammissione. Mi cercò (a quel tempo ero presidente dell’Aigav, l’Associazione internazionale dei vaticanisti) nella sala stampa allestita a Budapest, e mi chiese, presenti altri due giornalisti, di dire a tutti i colleghi che il Papa soffriva di una 'sindrome extrapiramidale', e che era quella la responsabile del tremito alle mani e degli inciampi nella parola. Non ci fu mai, finché Wojtyla fu vivo, una 'ammissione' ufficiale che avesse il Parkinson, anche se comunque con il passare degli anni se ne parlava e scriveva sempre più apertamente. Di fatto non arrivarono più smentite.
Fino a quando, cinque anni dopo la morte di Giovanni Paolo II, il suo medico personale Renato Buzzonetti non rivelò qualcosa: «Notai i primi sintomi del Parkinson attorno al 1991 – disse in una lunga intervista a L’Osservatore Romano – ma penso che non ci sia stato un momento circoscritto e preciso in cui il Papa scoprì di avere questa malattia. Per tanto tempo ha sottovalutato soggettivamente alcuni disturbi, e solo tardi cominciò a chiedere spiegazioni sul tremore. Io gli dicevo che il tremore è il sintomo più evidente di quella patologia neurologica, ma che di per sé il tremore non ha mai ucciso nessuno, benché sia un grave impedimento. Si aggiunse presto l’incertezza dell’equilibrio a rendere precaria la situazione.
La vita del Papa fu poi ulteriormente complicata dalla sintomatologia dolorosa osteoarticolare, particolarmente importante al ginocchio destro, che impediva a Giovanni Paolo II di restare in piedi a lungo e di camminare agevolmente. Erano due sintomatologie che, sommandosi e intrecciandosi, resero necessari l’uso del bastone, poi seggiole adattate e pedane mobili». Sta di fatto che, alla luce di quanto detto da Buzzonetti, mi apparve un po’ meno 'misterioso' il perché Wojtyla avesse voluto – fissandola l’11 febbraio, festa della Beata Vergine di Lourdes – la Giornata mondiale del Malato, istituita nel 1992. Ossia un anno dopo la manifestazione del Parkinson. Fino ad allora, infatti, si era sempre pensato che fosse stato il cardinale Fiorenzo Angelini – all’epoca presidente di quello che si chiamava Pontificio Consiglio della Pastorale degli operatori sanitari – a chiedere al Papa di dedicare una giornata alle persone malate, come si evinceva dalla lettera istitutiva. In effetti l’idea era stata del porporato ma, come mi confidò lo stesso Angelini, risaliva a diversi anni prima. Una giornata, come scritto nella stessa lettera, con «lo scopo manifesto di sensibilizzare il Popolo di Dio e, di conseguenza, le molteplici istituzioni sanitarie cattoliche e la stessa società civile, alla necessità di assicurare la migliore assistenza agli infermi; di aiutare chi è ammalato a valorizzare, sul piano umano e soprattutto su quello soprannaturale, la sofferenza».
Quale che sia l’origine, Giovanni Paolo II ha indubbiamente avuto sempre un’attenzione particolare per le persone malate, ed egli stesso ha vissuto con estrema trasparenza i propri guai di salute. Senza mai nascondersi, senza nessuna vergogna. Arrivando anche in più occasioni a scherzarci su. La prima cosa che fece appena eletto Papa fu di andare a visitare al Policlinico Gemelli il cardinale Deskur, suo amico da tanti anni, ricoverato. Non immaginando, allora, che di quell’ospedale sarebbe diventato un frequentatore abituale, tanto da arrivare a definirlo «Vaticano tre». E ai malati riservava da sempre un momento particolare in tutti i suoi viaggi: quando era con loro non guardava l’orologio, si prendeva tutto il tempo necessario per salutarli uno a uno, per parlare con loro.
Fino a quando, all’ennesima agenda saltata a causa dei continui ritardi, qualcuno non lo convinse a mettere tali incontri a fine giornata. Ma non vi rinunciò mai, neppure negli ultimi anni, quando la sua fatica la leggevi in ogni movimento, anche il più piccolo. La ragione di tanta attenzione l’aveva spiegata egli stesso nella lettera apostolica Salvifici doloris, pubblicata l’11 febbraio del 1984, in cui affermava che «dato dunque che l’uomo, attraverso la sua vita terrena, cammina in un modo o nell’altro sulla via della sofferenza, la Chiesa in ogni tempo dovrebbe incontrarsi con l’uomo proprio su questa via. La Chiesa, che nasce dal mistero della redenzione nella Croce di Cristo, è tenuta a cercare l’incontro con l’uomo in modo particolare sulla via della sua sofferenza. In un tale incontro l’uomo diventa la via della Chiesa, ed è, questa, una delle vie più importanti». È significativo che il suo ultimo viaggio sia stato a Lourdes, nell’agosto del 2004: l’immagine di Giovanni Paolo II inginocchiato davanti alla grotta, stremato, in un equilibrio talmente instabile da costringere Stanislao Dziwisz, il suo inseparabile segretario, ad accorrere per evitare la caduta, rimarrà per sempre.