giovedì 22 maggio 2014
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Uno dei rumors più insistenti sul tema del ritardo nel deposito della sentenza della Corte Costituzionale sulla fecondazione eterologa è che essa stia prendendo tempo per affinare le argomentazioni della decisione, già comunicata più di un mese fa, così da renderla "autoapplicativa", cioè senza bisogno di ulteriori interventi legislativi. Ancora ieri il ginecologo Carlo Flamigni ha sposato la tesi riportando il parere di una collega costituzionalista. Secondo la dottrina citata, sui punti relativi al disconoscimento della paternità e della maternità, nonché dell’anonimato del donatore, tutto starebbe già all’interno della legge 40 e, dunque, dopo la sentenza nessun intervento legislativo sarebbe necessario. Mi soffermo su questi punti. Certamente la legge già riconosce in capo al coniuge/convivente della donna fecondata con tecnica eterologa il divieto di disconoscere la paternità; già lo faceva pensando al caso di violazione di quel divieto, lo farà certamente ancora adesso. Più complesso è il caso della madre, cioè di quando la fecondazione eterologa è praticata col gamete di una donatrice. Qui la legge 40 si limita a dire che i nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli legittimi (art. 8) e che la madre del nato non possa richiedere di non essere nominata, come invece può avvenire nel caso di gravidanze indesiderate (art. 9). La ratio di questa disposizione mira a precludere l’abbandono del figlio quando lo si è volontariamente avuto con la tecnica artificiale, e, dunque, nulla ha a che vedere con l’accertamento della verità biologica della maternità. Per il Codice civile, infatti, colei che ha partorito è madre perché è anche colei che ha concepito il figlio. Questo dato è inequivocabile. È per questo, del resto, che si diceva <+Ev_cors>mater semper certa<+Ev_testo>: perché era impensabile che la partoriente fosse una donna diversa da colei che aveva concepito il figlio. È la generazione, cioè, la fattispecie costitutiva del rapporto di filiazione. La filiazione, in altri termini, si fonda sul dato biologico. Il progresso tecnologico ha reso ora possibile la non coincidenza tra chi ha partorito e chi ha generato il figlio. Il recente caso dello scambio all’Ospedale Pertini di Roma lo ha drammaticamente fatto emergere. Proprio per questo, nel caso dell’eterologa con donatrice femminile, occorrerebbe una norma espressa – che oggi manca – che precluda il disconoscimento di maternità, altrimenti non potrebbe escludersi, come nel caso della sostituzione di neonato, la contestazione dello stato di filiazione, pur risultante dall’atto di nascita, nonché il conseguente reclamo di un differente stato di figlio. Senz’altro fallace è poi ritenere che l’anonimato del donatore sia già previsto dalla legge 40. La norma si limita a dire, all’art. 9, che il donatore non acquisisce relazione parentale con il nato e non può far valere diritti, né essere destinatario di obblighi. Si tratta di una norma sugli effetti e sulle relazioni giuridiche, civilisticamente estranea al tema dell’anonimato che riguarda invece il profilo identitario del donatore (e non i suoi diritti e obblighi). Ciò è tanto vero che in tutti gli ordinamenti stranieri che hanno disciplinato la fecondazione eterologa esiste una norma espressa che indica se il donatore deve o meno restare anonimo. Poi, anche quando le legislazioni optano per l’anonimato, esse prevedono gradualità diverse circa la conoscibilità dei cosiddetti «dati non identificativi» e nessuno ne esclude totalmente la non conoscibilità. Risulta così ancora più evidente – del resto anche rileggendo gli atti parlamentari – come il tema dell’anonimato esuli totalmente dall’attuale art. 9 della legge 40, che si limita a non attivare vincoli giuridici tra donatore e nato, ma non a indicare qual è la strada circa il problema della conoscibilità dei dati identitari. La Corte Costituzionale, nelle sue motivazioni, potrà richiamarsi a un principio o a un diritto a conoscere le proprie origini, ma non a risolvere un problema che è materia discrezionale del legislatore. E quale sia il principio che la Corte richiamerà è facile prevederlo, avendo solo sei mesi fa stabilito che «anche il diritto del figlio a conoscere le proprie origini – e ad accedere alla propria storia parentale – costituisce un elemento significativo nel sistema costituzionale di tutela della persona, come pure riconosciuto in varie pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo. E il relativo bisogno di conoscenza rappresenta uno di quegli aspetti della personalità che possono condizionare l’intimo atteggiamento e la stessa vita di relazione di una persona in quanto tale. Elementi, tutti, affidati alla disciplina che il legislatore è chiamato a stabilire, nelle forme e con le modalità reputate più opportune» (sentenza n. 278 del 22 novembre 2013). Dunque, anche solo soffermandosi su questi punti, appare scontata la necessità di un intervento da parte del legislatore.
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