
La villetta di Vignale dove sono stati scoperti i corpi di due neonati, vicenda per la quale è agli arresti domiciliari la giovane madre
Pubblichiamo l'editoriale di "Vita Nuova", inserto domenicale di Avvenire della diocesi di Parma, firmato dal vescovo monsignor Enrico Solmi
Al mattino presto del 12 marzo, al cimitero di Bannone, sono stati sepolti i neonati trovati morti a Vignale l’estate scorsa. Una semplice preghiera li ha accompagnati. Ci sono fatti che vanno al di là del fatto stesso. Assurgono a segni e simbolo, pur rimanendo carichi di quanto è avvenuto e della responsabilità di chi li ha compiuti. Su questo ora non entriamo e non vogliamo entrare, troppo convinti che c’è la giustizia che procede, c’è un’interiorità, che a volte assurge a coscienza, che va rispettata e accolta, se la persona chiede di essere ascoltata. Su tutto c’è il silenzio pensoso e la preghiera che accomunano tutte le persone che vogliono fermarsi e non dimenticare in fretta il disagio che questi fatti procurano.
Allargo l’orizzonte alla morte inferta ai bambini, ai piccoli, prima di nascere e subito dopo la nascita e nei primi anni di vita. Purtroppo, potremmo andare oltre e menzionare altri tentativi di morte loro provocata, facendo mancare le opportunità di crescita, addirittura gli abusi che vanno stroncati con energia. Lo scenario è tremendamente vasto e i numeri agghiaccianti, anche se ci raggiungono come un ritornello che non fa più effetto.
La morte di Angelo Federico e Domenico Matteo, i “bambini di Vignale”, fa parte di questa tragedia. Ribadendo che non si vuole giudicare – c’è chi lo farà e c’è una Giustizia che attende tutti – esprimono un tempo nel quale un piccolo rischia di essere indifeso e non accettato come l’altro che mi sta di fronte, o, ancor più, nel grembo. Paradossalmente al tempo in cui la medicina “fa miracoli” per salvare, è facile sopprimere, troppo presi da sé stessi, dalle attese o dal giudizio degli altri, dall’immagine, dal comodo, da un miscuglio di situazioni nel quale un piccolo non ha posto. Fino ad ucciderlo. Un bambino in arrivo significa aprirsi a lui, creare un habitat anche per lui: qui tutto si è chiuso, ponendo domande sulla “casa”, la famiglia e la società.
C’è stata e ci sarà per un po’ grande eco mediatica, forzata, anche intrusiva, mentre si avverte la voglia di finirla così, metterci una pietra sopra, come quella che a Bannone chiude la loro tomba. Ma la ferita è aperta e, se non curata, si infetta. Vale per le persone chiamate, a livelli diversi, a un iter non facile di verifica di sé, degli stili di vita, del proprio io. Parliamo di giovani e immediatamente il tema si estende alla loro formidabile capacità di essere portatori di vita: la propria, quanti sogni o progetti; quella degli altri con il sapore della giustizia – quanto volontariato; e della vita che possono trasmettere: quale il suo posto e quali attese. Il cerchio si allarga alla famiglia, ambiente atteso dai giovani come dialogante e fecondo. Rispettosa, non estranea, partecipa dei loro sogni, come può estraniarsi.
La “casa” è la società, la frazione, il paese, il mondo. Fatti del genere scatenano tante reazioni – ed è stato così – e dovrebbero aiutare a fermarsi, a chiedersi dove stiamo andando e mentre andiamo, cosa si sta perdendo di essenziale e cosa assumiamo come zavorra o, ancor peggio, di esplosivo che prima o poi deflagrerà.
Anche la Chiesa è casa e deve interrogarsi se è consapevole di essere lievito del primato della vita, non con slogan, ma con una prossimità che si intreccia alla parola sincera e capace di educare. Vivere il tempo significa darsi tempo, per non dimenticare, per non essere sopraffatti, per non giudicare, per rientrare in noi ed essere umani.
*vescovo di Parma