Educare alla maternità. La sfida lanciata dal ministro della Salute Beatrice Lorenzin sulle pagine di
Avvenire e che nei prossimi mesi potrebbe addirittura concretizzarsi in un piano nazionale per la natalità continua a riscuotere consensi. E non solo in ambito sanitario, dove l’aspetto più interessante della proposta è quello legato alle tematiche della fertilità (e della cura della sterilità, troppo spesso sostituita dal ricorso alla provetta).«L’idea della Lorenzin è dirompente anche dal punto di vista sociale ed economico – spiega il demografo Gian Carlo Blangiardo –. Non c’è bisogno di ricordare come l’Italia stia attraversando il peggiore degli inverni demografici e come la denatalità sia il sintomo più evidente di un modo culturalmente sbagliato di concepire la famiglia». Le “radiografie” del malato ci sono, secondo Blangiardo. La regola italiana del “meno figli e più tardi” è stata imposta dai meccanismi lavorativi e sociali complessi, dal fatto che una donna arriva alla carriera e alla stabilità professionale tendenzialmente tra i 35 e i 40 anni «e soltanto allora, se va bene, prende in considerazione l’ipotesi di un figlio». Figlio che rimane unico nella stragrande maggioranza dei casi.Che fare? Come curare il malato, articolando un piano per la natalità che tenga conto delle oggettive difficoltà del sistema Italia? «Intanto rimettendo al centro un’idea diversa di famiglia con figli. Che non è un gruppo di disperati, o di parassiti, ma una risorsa per il Paese visto che quei figli pagheranno le pensioni di chi altrimenti non le avrà», continua Blangiardo. Più sono, insomma, meglio sarà per tutti.«E poi ci sarebbe tutta l’attività messa in campo dall’Osservatorio nazionale per la famiglia, il cui piano nazionale elaborato nei minimi dettagli nel non troppo lontano 2009 è stato dimenticato in qualche cassetto, per la regola tutta italiana che i governi che vengono dopo dimenticano quanto fatto di buono dai precedenti», rileva ancora Blangiardo. Già, perché incentivare la natalità non può significare soltanto informare gli adolescenti sulle possibilità biologiche maggiori di avere figli sotto i trent’anni, ma anche metterli nelle condizioni di farli, i figli. E per creare quelle condizioni bisogna ripartire dalla situazione in cui vengono messe le famiglie: come si può pretendere che una donna scelga di avere un figlio all’inizio del suo percorso professionale se questo significa discriminazione o addirittura licenziamento? «Ci sono poi i capitoli conciliazione e sostegno alla genitorialità, misure senza le quali è concretamente impossibile convincere i giovani al passo difficile di un figlio, figurarsi a quello considerato quasi impossibile di due o tre», prosegue Blangiardo.La buona notizia? La natalità, in Italia, è solo un valore latente. «Il desiderio di fare figli è ancora altamente diffuso e sono convinto che da qui si debba partire, facendo leva sulla propensione dei giovani a diventare genitori». Il nodo restano gli strumenti e per questo «il ministro Lorenzin dovrebbe pensare a un dibattito allargato nel governo sulla sua idea». Servono nuove consapevolezze culturali, con una formazione che comincia a scuola. Servono investimenti per percorsi sanitari che privilegino l’attenzione alla fertilità di coppia e alla cura della sterilità. Servono interventi nel campo del lavoro affinché tutti siano messi nella condizione di scegliere, la natalità. E non soltanto di sognarla.