venerdì 12 aprile 2019
Al centro del caso la doppia maternità negata a due donne che hanno avuto un figlio con fecondazione assistita all'estero. Un altro caso a Bolzano
Il palazzo della Corte costituzionale (archivio Ansa)

Il palazzo della Corte costituzionale (archivio Ansa)

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Quattro donne unite in due coppie vogliono essere dichiarate madri. E ottengono che la Consulta -, attraverso il vaglio di costituzionalità sulle leggi esistenti, ostacolo all’attuazione del loro desiderio -, esamini la loro richiesta.

La prima ordinanza di remissione alla Corte, cioè il provvedimento con cui una magistratura territoriale pone una questione alla Consulta, è arrivata a Roma dal tribunale di Venezia, e verte sulla legge Cirinnà sulle unioni civili, voluta per riconoscere i legami affettivi tra persone dello stesso sesso, qui paradossalmente sospettata di discriminare proprio le coppie omosessuali che vogliono crescere dei bimbi come fossero loro figli. Il motivo? Non regolando il contenuto dell’atto di nascita di un bimbo ottenuto mediante la fecondazione eterologa o la maternità surrogata nell’ambito di una coppia omosessuale, la legge non realizzerebbe, così è scritto nell’ordinanza, “il diritto fondamentale alla genitorialità dell’individuo”.

Ma già il Parlamento, durante la discussione di questa legge, aveva preso in considerazione l’opportunità di ritenere giuridicamente possibile una genitorialità gay, e proprio all’esito dei lavori – dedicati anche alla cosiddetta stepchild adoption, ovvero l’adozione del figlio del partner – aveva ritenuto opportuno soprassedere.

Dal tribunale di Bolzano, invece, è arrivato alla Consulta il sospetto d’incostituzionalità della legge 40, che impedisce alle coppie formate da persone dello stesso sesso di accedere alla fecondazione eterologa. “Un divieto irragionevole e sproporzionato”, sostiene Alexander Schuster, il legale trentino che assiste le due donne protagoniste della vicenda. Eppure, un dato di natura si limita ad affermare la legge contestata: un bimbo può nascere solo dall’unione di un uomo e una donna, e con questi ha diritto di crescere. Principio però contestato dalle due ricorrenti, che insieme vorrebbero procreare: e mentre una può produrre ovociti, ma non può condurre la gravidanza, l’altra si trova nella situazione opposta.

Situazione diversa quella veneziana, dove invece un bimbo già esiste. Una donna l’ha partorito all’ospedale di Mestre, ma la fecondazione – tramite gli ovociti dell’altra e il seme di un anonimo donatore – era avvenuta a Copenhagen. Chiesto al Comune veneto di indicare il piccolo come figlio di entrambe, l’ufficiale di stato civile lo aveva iscritto solo quale figlio della donna che l’aveva partorito, con la postilla “nato dall’unione naturale con un uomo, non parente né affine”. Da qui, l’istanza al Comune per la rettifica dell’atto di nascita, il diniego dell’ente pubblico, il ricorso al tribunale. E adesso il ricorso alla Consulta.

Ancora non si sa quando verranno trattate le due questioni, ma un dato è certo: saranno destinate a intrecciarsi con un’attesissima pronuncia della Corte di Cassazione, a Sezioni unite, già discussa e in attesa di pubblicazione: quella che stabilirà una volta per tutte il regime giuridico dei bimbi nati all’estero, da ovociti comprati e un utero affittato, su commissione di coppie gay. Espatriate, ma solo temporaneamente, al solo fine di aggirare il divieto della legge 40.

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