Il Palazzo della Consulta - Ansa
L’ufficiale di Stato Civile non è obbligato a trascrivere tale e quale un atto di nascita estero, quando il secondo “genitore” è biologicamente estraneo al bimbo, e quest’ultimo sia stato ottenuto mediante fecondazione eterologa.
Lo ha sancito la Corte Costituzionale, anticipando con un comunicato la sentenza che sarà depositata nelle prossime settimane. “Secondo la Corte – vi si legge – il riconoscimento dello status di genitore alla cosiddetta madre intenzionale – all’interno di un rapporto tra due donne unite civilmente – non risponde a un precetto costituzionale ma comporta una scelta di così alta discrezionalità da essere per ciò stesso riservata al legislatore, quale interprete del sentire della collettività nazionale”.
Con questa pronuncia, dunque, viene sancito un chiaro stop alle pretese di chi all’interno di una coppia omo “commissiona” un figlio in provetta avvalendosi di materiale genetico ad essa estraneo, salvo poi pretendere che entrambi i suoi componenti siano riconosciuti “genitori” dal proprio Comune.
In ogni caso, ha chiarito la Consulta, “la protezione del miglior interesse del minore in simili situazioni, oggi affidata dalla giurisprudenza all’attuale disciplina sull’adozione in casi particolari, può essere assicurata attraverso varie soluzioni, tutte compatibili con la Costituzione, che spetta sempre al legislatore individuare”.
La pronuncia di oggi scaturisce da due donne, unite civilmente, che avevano fatto ricorso al Tribunale di Venezia contro il rifiuto, opposto dal Comune, di essere considerate entrambe “madri” del bimbo ottenuto in vitro all’estero. Una decisione, quella dell’espatrio, motivata dalla necessità di eludere la legge italiana. Che, come noto, vieta la provetta alle coppie same sex.
Il caso
Il nuovo caso discusso all’udienza pubblica della Consulta martedì 20 ottobre e giunto a sentenza oggi, mercoledì 21, prende le mosse da due donne, unite civilmente in Italia, che per realizzare un progetto genitoriale congiunto avevano ottenuto un bimbo all’estero. Una delle due aveva prestato i propri ovociti, l’altra nulla. E il seme maschile era stato acquistato da uno sconosciuto, particolare ininfluente secondo le norme di quel Paese, tant’è che il certificato di nascita menziona solo le due donne. Fatto sta che la coppia rientra subito in Italia e chiede all’ufficiale di stato civile del Comune la trascrizione di quel documento. Il funzionario, invece, nell’apposito registro identifica il bimbo come nato «dall’unione naturale di ... con un uomo non parente né affine con lei», provocando il ricorso delle due donne in tribunale. Ed è qui che nasce la nuova teoria posta su cui si è pronunciata la Consulta.
I presupposti, per la corte di Venezia, sono due. Il primo: le norme italiane non consentono oggi il riconoscimento della genitorialità all’interno delle coppie dello stesso sesso. Il secondo: questo divieto sarebbe contrario alla Costituzione e a diverse fonti giuridiche internazionali. Per il tribunale di Venezia, infatti, la «procreazione medicalmente assistita è praticata per appagare un istinto materno, svincolato dalle inclinazioni sessuali», suscettibile di tutela costituzionale. Una prospettazione già respinta, all’udienza di martedì, dall’avvocato dello Stato Wally Ferrante: la legge 40, che regola il concepimento in provetta, serve «a porre rimedio a infertilità patologiche – e non all’impossibilità ontologica di poter procreare».
Tutta l’ordinanza veneziana di remissione alla Consulta tendeva invece a suffragare la tesi contraria. Così, vi si legge, quello a «diventare genitori» sarebbe «un diritto umano inviolabile», che – per divenire effettivo – richiederebbe il «superamento culturale, prima ancora che giuridico, della tradizionale giustificazione della sessualità con la procreazione e della sua sublimazione nella funzione genitoriale».
E’ qui, invece, che l’avvocato dello Stato ha ricordato come tutto l’ordinamento italiano sia «puerocentrico», finalizzato alla tutela non dei desideri dei grandi ma dei diritti dei piccoli. E ha sottolineato come il divieto imposto dalla legge 40 rappresenti la «garanzia minima», per un bimbo, «a essere accolto in una situazione naturale».
Ferrante ha poi disinnescato un’ulteriore argomentazione delle ricorrenti: quella per cui, una volta riconosciute le unioni civili con la legge 76 del 2016 (la “Cirinnà”), sarebbe incostituzionale non aver previsto anche la possibilità di veder loro riconosciuta una genitorialità piena. In verità, la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) – ricorda l’avvocato dello Stato – «ha lasciato agli Stati la possibilità di legiferare sulla materia, senza per questo incorrere in violazioni». E poi, per sottolineare l’inammissibile creatività di provvedimenti qual è l’ordinanza veneziana, ha ricordato come la «sede deputata» alla formazione delle leggi sia il Parlamento, quello stesso in cui – dopo un amplissimo dibattito – è stato deciso di eliminare la possibilità per le coppie gay di accedere alla stepchild adoption. Non solo. Ferrante ha citato la sentenza Cedu del gennaio 2017, quella con cui la Grand Chambre di Strasburgo ha respinto il ricorso di una coppia italiana cui era stato sottratto il figlio ottenuto con maternità surrogata: si è trattato «di un monito agli adulti» affinché «lo Stato» non fosse più «messo davanti al fatto compiuto». Dove questo “fatto compiuto” è un bimbo “assemblato”.
Oggi, infine, la decisione della Corte Costituzionale.