Archivio Ansa
La piaga della pedofilia non si risolve soltanto con nuove norme, né con indagini di polizia, né con accordi internazionali. Se non sarà avviata una grande e coraggiosa azione preventiva, se non si riuscirà ad incidere su un atteggiamento culturale che vede ancora il bambino come strumento - o peggio, oggetto - nelle mani degli adulti, se non si potranno smontare i meccanismi pervasivi e per tanti versi inafferrabili che regolano il mondo digitale da cui provengono le minacce più insidiose, sarà difficile incidere in un pianeta ancora per tanti versi sconosciuto nelle sue reali dimensioni.
Nel corso del dibattito organizzato in occasione della Giornata nazionale contro la pedofilia, il ministro della famiglia, Elena Bonetti, ha invocato un cambio di paradigma, capace di fare voce ai diritti dei minori, oltre a tutte quelle misure conoscitive ancora troppo vaghe, come l’Osservatorio nazionale per il contrasto della pedofilia e della pornografia minorile che non si riunisce dal 2016. «Ma lo abbiamo ridefinito e ricostruito in dialogo con quello per l’infanzia e l’adolescenza e – ha promesso Bonetti – entro il 2016 tornerà a riunirsi”. E, a proposito di dati certi sul fenomeno pedofilia, la senatrice Licia Ronzulli, presidente della commissione bicamerale sull’infanzia, ha reso noto lo stato dei lavori dell’indagine conoscitiva che sarà completata entro l’anno. «I tanti auditi durante l’indagine – ha aggiunto – ci hanno confermato come l’abuso anche sessuale ai danni dei minori si verifichi nella quasi totalità dei casi su bimbi piccoli, in ambiente familiare e scolastico». Per favorire una conoscenza del fenomeno, Ronzulli ha proposto di installare in modo capillare sistemi di videosorveglianza a circuito chiuso e criptati. «Le risorse sono state stanziate, ora si tratta di rendere operativi questi sistemi», ha aggiunto.
Perché uno degli aspetti sottolineati ieri durante il dibattito organizzato in occasione della conferenza web organizzata da Telefono Azzurro è stato proprio l’incertezza dei dati. Sappiamo che durante questi mesi di quarantena blindata sono aumentati i casi di violenza all’interno delle famiglie – dato confermato dai magistrati minorili – sappiamo che sono in crescita le richieste di aiuto arrivate alla polizia postale, sappiamo che c’è stata una paurosa impennata del mercato on line pedopornografico. Sì, ma in che termini?
Ieri, nel corso della conferenza, Alessandra Belardini del Servizio di polizia postale per il contrasto alla pedopornografia sulla rete, ha rivelato che ogni giorno arrivano circa cinquemila segnalazioni di presunte situazioni irregolari. Tutte da verificare, perché prima di muoversi occorre capire se si tratta di allarmi autentici, situazioni da indagare e per cui allertare i territori di competenza. Un altro aspetto complesso, come ha spiegato il magistrato Giovanni Russo, della Procura nazionale antimafia, riguarda la difficoltà di stabilire una relazione tra l’impennata di accessi ai siti pedopornografici registrata nel corso dell’emergenza sanitaria - «un’epidemia nell’epidemia», l’ha definita l’esperto – e i reati legati allo sfruttamento minorile. Anche perché si tratta di un fenomeno criminale che non conosce frontiere e che ogni anno muove interessi per oltre 100 miliardi di dollari. «Servono misure concordate a livello internazionale.
Uno Stato da solo può fare ben poco». Ma anche in questo caso avviare una comune linea d’azione non sembra agevole. Una quindicina di Stati Usa ha proposto di considerare fuorilegge tutti i siti che ospitano contenuti esplicitamente sessuali prodotti dagli stessi utenti, perché qui soprattutto sarebbero rintracciabili le scene più terribili, spesso con la presenza di minori. Mentre in Francia si sta discutendo se rendere pubblici gli elenchi delle persone condannate in via definitiva per reati legati agli abusi sessuali su minori. Soluzioni diverse per una piaga da cui, come ha confermato Maud de Boer-Buquicchio, relatrice speciale dell’Onu per la vendita e lo sfruttamento sessuale dei bambini, «nessun Paese è immune, ma le condanne sono ancora pochissime in proporzione ai numeri di reati accertati. Anche perché i bambini più vulnerabili sono anche quelli più poveri, immigrati, rom». E per loro ben pochi sono disposti a spendersi, come confermato da Maria Monteleone, procuratore aggiunto alla Procura di Roma, da tanti anni in prima linea per reprimere il fenomeno degli abusi sui minori, che ha sottolineato come su dieci vittime, sette siano bambine. Cosa fare per arginare questa piaga odiosa? Quali strumenti mettere in campo?
Da qui la necessità di una riflessione profonda che vede la Chiesa schierata in prima linea, dopo anni in cui, ha ammesso padre Hans Zollner, docente di teologia alla Gregoriana e psicologo, direttore del Center for Child Protection, «non ha fatto tutto quello che sarebbe stato necessario per la prevenzione e la protezione delle vittime». Già con Giovanni Paolo II, poi con Benedetto e oggi con papa Francesco la situazione è profondamente cambiata. Le due lettere in forma di “motu proprio” firmate da Francesco sulla protezione dei minori, con nuove procedure per segnalare molestie e violenze (marzo e maggio 2019), e due rescritti dello scorso dicembre, in cui tra l’altro si innalza da 14 a 18 il limite d’età per la punibilità ed elimina il segreto pontificio per gli abusi sessuali commessi dal clero, segnano una svolta indiscutibile. «E poi non smettiamo di lavorare sull’acquisizione dei dati, sui servizi per le vittime, sulla formazione. Soltanto nell’ultimo anno abbiamo organizzato oltre mille seminari in tutto il mondo», ha detto padre Zollner.
Un impegno totalmente condiviso dalla Chiesa italiana nella consapevolezza che non basta la repressione ma serve un sistema preventivo capillare, organizzato e consapevole. Ieri, nel corso del dibattito, l’ha spiegato l’arcivescovo di Ravenna Cervia, Lorenzo Ghizzoni, presidente del Servizio nazionale tutela minori della Cei. Oggi la Chiesa italiana dispone di un sistema che coinvolge tutte le regioni ecclesiastiche e tutte le diocesi, con un referente locale, piccole equipe di esperti e centri di ascolto in grado di provvedere all’accoglienza delle vittime. Ghizzoni ha anche ricordato la costante collaborazione con la magistratura, frutto di una scelta abbracciata “in coscienza” da tutti i vescovi, pur in assenza di una legge che renda obbligatoria la denuncia.
Coinvolgimento delle realtà locali, responsabilizzazione, cooperazione tra pubblico e privato sono anche i punti fermi del “progetto Firenze” di cui ha parlato Laura Lega, prefetto del capoluogo toscano. Si tratta di un modello che coinvolge istituzioni pubbliche (amministrazioni locali, magistratura, scuola), terzo settore, associazioni e privati, per una grande opera di prevenzione e di educazione sul tema abusi. Coinvolti direttamente anche i ragazzi, perché – ha sottolineato il prefetto - «è giusto siano loro a spiegarci cosa si attendono dal mondo degli adulti».
Una scelta multidisciplinare indicata in conclusione anche da Ernesto Caffo, presidente di Telefono Azzurro e membro della Commissione pontificia per la protezione dei minori, come l’unica vincente. Tra le altre azioni urgenti, Caffo ha ricordato «una più ampia collaborazione tra lo Stato e le organizzazioni no profit per la rimozione dei materiali pornografici da internet; programmi educativi e misure di intervento preventive che includano famiglie e adulti di riferimento; stabilire standard qualitativi minimi per professionisti a contatto con bambini e adolescenti; coinvolgere i più piccoli per l’ideazione di progetti e – ha ribadito – ascoltare sempre la loro voce».