Sempre più frequentemente emergono i casi di uomini e donne alla disperata ricerca dei propri genitori biologici, non solo per ragioni mediche – quello della trasmissione di malattie ereditarie è un altro dei problemi legati al ricorso a gameti di donatori – ma per un istinto atavico che spinge a risalire alle proprie origini. Non mancano certamente coloro che vivono serenamente la loro condizione di figli dell’eterologa, ma storie come quelle della Burns mostrano come la rivendicazione del diritto a conoscere le proprie origini genetiche sia un fatto che va messo in conto una volta che si apre alla donazione dei gameti. Un conto salatissimo in termini sociali, che ha costretto gli Stati che hanno legalizzato tale pratica diversi anni fa a rivedere col tempo le regole stabilite o a discutere su come cambiarle, indirizzandosi in modo sempre più deciso verso l’abolizione dell’anonimato.
Una questione che interessa da vicino anche l’Italia, nel momento in cui le regole per l’eterologa che si sono date le Regioni prevedono l’anonimato del donatore: potrà durare, realisticamente, e per quanto, questo scudo? E a beneficio di chi, se l’esperienza insegna che il tema della ricerca delle origini, a un certo punto, s’impone con forza? Oggi Lauren Burns combatte perché tutti possano vedersi riconosciuto questo diritto. In tv la ragazza ha espresso il suo pensiero: «Molte strutture hanno fatto esclusivamente l’interesse degli adulti, essenzialmente coloro che ricorrevano al trattamento (della fecondazione eterologa, ndr), i donatori e i medici». E il figlio concepito? «I diritti dei bambini che sono nati, che erano le persone più vulnerabili di tutto il processo, non venivano considerati affatto». In Australia l’anonimato del donatore è stato abolito nei diversi Stati durante gli anni 2000, ma sussistono ancora enormi problemi per tutti coloro che sono stati concepiti nei due decenni precedenti. Lauren si è dovuta rivolgere di persona alla clinica nei cui laboratori il seme di suo padre era stato unito all’ovulo di sua madre: il dottor de Kretser, che all’epoca si occupava del reclutamento dei donatori in veste di esperto di fertilità, dette corso alla richiesta della Burns, scartabellò tra i registri e scrisse una lettera a Clark. Poi la verità e l’incontro tra padre e figlia, tra cui si è instaurato un forte legame.
Sarah Dingle, che di mestiere fa la giornalista per ABC News, non è stata fortunata quanto Lauren. Quando aveva 27 anni, la madre decise di raccontarle la verità circa il fatto che l’uomo con cui era cresciuta non era suo padre biologico. Sarah racconta in tv il primo choc: «Mi guardavo allo specchio e letteralmente non riconoscevo la mia faccia». Un vero terremoto psicologico riguardante la propria identità. Una volta avviate le ricerche sul donatore del seme, ecco l’amara scoperta: i dati nel registro della Human Reproduction Clinic, con sede presso il Royal North Shore Hospital di Sydney, erano stati manomessi e nella cartella riguardante Sarah non era più presente il codice corrispondente a suo padre. «Non potevo credere che un ospedale pubblico che stava creando la vita umana avesse distrutto le tracce di quanto avevano fatto».La rilevanza sociale della fecondazione eterologa e delle questioni riguardanti l’anonimato dei donatori – le cui ricadute si concretizzano innanzitutto nella disgregazione del concetto di famiglia – emerge chiaramente dalla storia di Emma Cresswell, che ha animato le cronache britanniche a fine luglio. La ventiseienne ha infatti vinto una battaglia legale durata sei anni e ha ottenuto che il cognome di colui che credeva essere suo padre fosse rimosso dal proprio certificato di nascita. Dopo aver scoperto di essere stata concepita col seme di un donatore, Emma ha voluto che fosse lasciato in bianco lo spazio dove si indicano le generalità del padre: «Ogni volta che guardavo quel certificato, pensavo: è una bugia – ha dichiarato la Cresswell – Adesso c’è la verità. Chi sono io». Si stima che siano 70mila nel solo Regno Unito i concepiti col ricorso a gameti di donatori. Solo quelli nati dopo il 2005 hanno accesso alle informazioni circa i genitori biologici.
In più di un’occasione, oltremanica, i quotidiani hanno dato risalto a storie legate alla fecondazione eterologa. Sul Guardian, lo scorso gennaio, fu ospitata la testimonianza di un uomo che negli anni ’90 era solito donare lo sperma per raggranellare denaro e che ha mostrato quanto forte possa essere anche il desiderio dei padri di conoscere i figli. Chris Whitman, questo il nome di fantasia usato per tutelarne la vera identità, raccontò quanto emerso in seguito alla sua decisione di investigare sull’uso fatto del suo seme: ben 34 esseri umani – 20 bimbe e 14 bimbi – erano suoi figli: «Più di tre squadre di calcio in giro con i miei geni». Nel 2013, dopo questa scoperta sconvolgente, l’uomo si chiede se sia il caso di rinunciare al proprio diritto all’anonimato ed è leggendo la storia di una ragazza che sta cercando il proprio padre biologico che decide di iscriversi nuovamente al registro della Hfea (l’autorità che regolamenta la fecondazione artificiale nel Regno Unito) come donatore identificabile: «I figli di età superiore ai 18 anni adesso possono richiedere informazioni su di me, compresi i recapiti che ho fornito».
Quanto storie come quelle di Lauren, Sarah, Emma e Chris siano oramai considerate tutt’altro che straordinarie, ma parti costitutive del costume del ventunesimo secolo, lo dimostra la messa in onda di Generation Cryo da parte di Mtv. L’emittente ha infatti trasmesso il programma – i cui ingredienti sono quelli del reality mescolato al documentario – che segue passo dopo passo le giornate di Breeanna. La diciassettenne, figlia di donatore, scopre di avere almeno 15 fratelli e si mette alla ricerca di questi sconosciuti in realtà legati a lei da un vincolo familiare. La volontà di Breeanna è quella di farsi aiutare dai propri consanguinei a reperire più informazioni possibili sul loro padre, il donatore numero 1.096. L’avventura della giovane ragazza inizia con la sua iscrizione al Donor Sibling Registry, con sede in Colorado, nato con l’intento di fornire informazioni a tutti i concepiti con fecondazione eterologa per aiutarli a riallacciare i propri legami familiari. Creato nel 2000 da Wendy Kramer e da suo figlio Ryan, il registro vanta più di 44mila iscrizioni e ad oggi ha contribuito a svelare 11.544 legami familiari. La Kramer è anche autrice del libro "Finding our families" ("Trovare le nostre famiglie"), una vera e propria guida per il sempre crescente numero di famiglie che hanno figli nati con l’aiuto della donazione di gameti.
In Europa è invece attivo con gli stessi obiettivi il Donor Offspring Europe (Doe), che raccoglie figli dell’eterologa di Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Olanda, Svizzera e Regno Unito. L’idea è quella di aiutare chi lo desidera a far valere il proprio diritto (si tratta di un vero e proprio "diritto umano", si afferma sul sito del Doe) a conoscere il proprio albero genealogico. La rilevanza sociale della fecondazione eterologa non è solo questione di costume, ma è fondata anche sul rischio concreto di essere causa di relazioni incestuose. A tal proposito assai significativo è l’impegno di Audrey Kermalvezen, francese, figlia di donatore e moglie di un uomo a sua volta nato grazie al ricorso alla fecondazione eterologa. L’autrice del libro intitolato "Le mie origini: un affare di Stato", nata nel 1980, vuole conoscere l’identità del proprio padre biologico per essere certa di non essere la sorellastra del marito: «Quello che cerco non è solo Dna – ha affermato la Kermalvezen – ma un volto». Perché non stiamo parlando solo di genetica e biologia. In gioco ci sono le singole esistenze di persone protagoniste loro malgrado di quello che non è esclusivamente un esperimento scientifico, ma anche socio-culturale, come affermato da Lauren Burns e da Caroline Halstead, la cui storia fu raccontata dal Daily Mail nel 2010. Caroline espresse tutto il suo senso di sradicamento e smarrimento con poche, semplici parole: «La fuori c’è una intera famiglia che non conoscerò mai e che non conoscerà mai me».