Il nuovo libro di Alberto Bertoni, Il letto vuoto (Aragno, Torino 2012, pp. 96, euro 10; il titolo, abbastanza incongruo, è stato suggerito da Alberto Bevilacqua) è il "compimento" dell'esperienza di Recordare (Incontri editore, Sassuolo 2011), che Bertoni ha condiviso con i colleghi Roberto Alperoli (per me una piacevole scoperta) ed Emilio Rentocchini (qui meno strepitoso rispetto alle indimenticabili Ottave, Garzanti 2001). Davvero sconcertante l'esperimento di Recordare che ha riunito tre poeti per elaborare in versi il lutto della perdita del padre, della madre (o di entrambi i genitori), insieme agli amici pittori Andrea Capucci, Andrea Chiesi, Franco Guerzoni, Wainer Vaccari, le cui splendide tavole riconciliano con i libri illustrati anche coloro (quorum ego) che solitamente li detestano. Quattordici delle diciassette poesie bertoniane di Recordare sono confluite nel nuovo libro (ma "Gente di Dublino" è diventata "Il nodo che mi tenne", e almeno "Tra l'utero e il marmo" poteva essere recuperata), che poi svaria, anche con brevi prose, in temi a cui Bertoni ci ha da tempo abituati, comprese le corse dei cavalli e il gioco del calcio, in più, questa volta, con un bestiario urbano, topo schiacciato sull'asfalto, merlo stecchito accanto al cassonetto, il tutto e sempre immerso nella placida eppur sofferta calura del paesaggio modenese, perché Alberto Bertoni (classe 1955) è di Modena felicemente e con vaga impazienza, proprio come il modenese Antonio Delfini (1907-1963) rievocato nelle pagine finali. Ed è proprio lì, nel ricordo dell'incontro di sé stesso bambino con un vaticinante Antonio Delfini, al termine di un immancabile incontro di calcio, che Bertoni si lascia sfuggire la chiave interpretativa della sua poetica. «Correte e tacete e pensate alla speranza. Solo alla Speranza. La Chimera non è, non sarà...», concludeva Delfini il suo sproloquio. E Bertoni: «Parole piene di grazia e di morte, di vitalità e di disperazione: parole alle quali, cinquant'anni dopo, mi sono sentito obbligato a rispondere. E così, di getto, davvero a distanza di una vita, ho scritto questi versi finali, intitolandoli "Per sempre"». Seguono i versi che qui non commentiamo, così come non prendiamo posizione su Antonio Delfini, scrittore apprezzato (soprattutto "dopo") da Giorgio Bassani, Natalia Ginzburg, Cesare Garboli, ma che forse era soltanto un eccentrico personaggio di provincia che non teneva il passo di Alberto Savinio: rivelatore è quel «di getto», che spiega tutta la poesia di Alberto Bertoni. Il quale è coltissimo, insegna Letteratura contemporanea all'Università di Bologna e ha pubblicato, oltre alle raccolte poetiche, l'importante antologia Il catalogo è questo. Poesie 1978-2000 (Il cavaliere azzurro, Parma 2000), ma la cui poesia ha un che di trasandato, appunto, "di getto", come se il poeta non conoscesse riscritture. Certo, gli siamo grati di non affliggerci con la variantistica, e nondimeno ci sentiremmo in diritto di qualcosa di più elaborato, di più rifinito. Eppure ha ragione lui, le sue poesie non ammettono ritocchi, devono conservare quel qualcosa di scosceso che le rende infungibili, restituendoci sentimenti che fanno tutt'uno con la fisiologia: «Ma io lo so che per mia colpa / mia colpa mia grandissima colpa / di troppo caldo sei morta, / non ti ho fatto godere nel mio fiato / l'alba del tempo ritrovato». E a un interlocutore che gli obietta di fare da troppo tempo «versi nominali, / frasi senza verbo», risponde con questa dichiarazione di poetica: «Eh, caro mio, ma i verbi / le azioni o gli stati / da dove nasce il mondo di cui parlo / non li possiedo da anni / presenti, futuri, passati // E la solitudine, se proprio vuoi saperlo / dal negozio del centro / ha raggiunto l'esterno / questo marciapiede sconnesso / me, nel cuore di Modena straniero».
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