Caro megadirettore Coletta, preferiamo non sapere il quantum del cachet messo a disposizione da mamma Rai per il figliol prodigo Checco Zalone. Qualsiasi cifra sarebbe sempre troppo per il poco ascoltato e visto. Il ragazzo di Capurso ha fatto dell'avidità un cavallo di battaglia e giustamente avrà scucito il massimo, anche perché con una presentazione da premio Oscar, come quella che gli ha elargito il piccolo “dittatore artistico” Amadeus III, non poteva certo scendere di prezzo.
Se vi diciamo che a noi Checco Zalone non è piaciuto rischiamo di beccarci più insulti della povera Lorena Cesarini? (plaudita giustamente anche dal cardinal Ravasi). Checco è un bravissimo comico, forse il migliore in circolazione, anche perché come disse una volta Gianni Mura a Maurizio Crozza, «tu sei il più bravo, ma anche perché segni sempre a porta vuota». Pare che Crozza consideri Checco un «genio», e non è l'unico a valutarlo come il Chaplin delle Puglie. I suoi guizzi di solito sono originali, ma quelli sanremesi no: sono stati un furbesco riciclaggio di cose di altre case. Gag da sagra delle orecchiette con cui riempiva il palinsesto di Telenorba (vedi il trans cenerentolo brasiliano), canzoncine osé del suo periodo d'oro aZelig.
Uno spettacolino dai, merce trash pari a quella dei cuginetti, gli “emigratis” foggiani Pio e Amedeo. Zalone all'Ariston dopo la finta partenza in mezzo al «popolino» ha mostrato un pizzico di spocchia da fenomeno di incassi al botteghino. Quello è e non cadiamo dalle nubi. Giorni fa, un bravo attore teatrale che per vivere e farsi riconoscere per la strada fa le fiction, mi confidava: «Fare la televisione mi piacerebbe, ma è difficile, lì devi essere semplice, trovare un linguaggio che arrivi a tutti». Vero, ma il crinale tra il semplice e il superficiale è assai labile. Scendere nel triviale con una sequela di «c...o» bip e dissertare di emorroidi al popolo di Sanremo, vuol dire aver ormai barattato – per lo share – lo sterco con la nutella.
Analizzare un pezzo, cantato o recitato di Zalone, non può e non deve diventare un'analisi sociologica, certo, però il Paese reale che descrive, da sempre, è fatto esclusivamente di «poco ricchi» che sognano di arricchirsi per comprare «l'ultimo modello della playstation al figlio» e di professionisti sposati che alla sera vanno a cena con dei trans chiamati Desiderio.
Un mondo così malato di sesso, rap e ipocrisia, è destinato a morire Checco mio. O nella migliore delle ipotesi non guarirà mai, anche se da domani sparisse la pandemia – ce lo auguriamo – assieme a tutti i virologi colleghi del suo Oronzo Carrisi «cugino di Al Bano». In questo sproloquio provinciale, niente affatto da Eurovisione, la musica passa in secondo o terzo piano. L'equivoco è grave, e lo capisci quando tuo figlio dopo le una di notte ti sveglia per chiedere: «Ma Ragadi (Zalone) perché non è tra i 25 in classifica?».