Nella mia piccola, periferica città, di neri (eufemismo non so perché politicamente corretto) se n'è cominciati a vedere in giro solo fra le truppe alleate d'occupazione, nel dopoguerra. Adesso anche da noi rappresentano una costante del paesaggio umano. Quasi sempre sono giovani: venditori ambulanti di povera mercanzia, chiamati vucumprà. Nome invece politicamente scorretto: l'Enciclopedia Treccani consiglia «extracomunitari», «immigrati». Ma non è la stessa cosa; e forse si può continuare a dire vucumprà, tra virgolette ideali: purché lo si dica con simpatia e affetto. Io ne conosco alcuni in particolare, che tengono bottega su marciapiedi dove passo di frequente. Mi chiamano babbo, e chiamano mamma mia moglie, forse con un po' d'astuzia commerciale. In genere però li deludo, non sono un buon cliente. È vero che in compenso li si può portare al bar, qualche volta. Quando insistono per vendere, si può chiedergli se invece gradiscono un cappuccino: ed è anche il modo di rifilargli un paio di monete. Un tempo era difficile fargliele accettare: si ritraevano subito offesi, rabbuiati. Ora spesso sono loro a chiedere: tristissimi, umiliati, stentatamente mormorando di fame e di bambini. E questo cambiamento forse dà notizie della crisi del mercato e della nuova storia dell'emigrazione.
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