In un racconto di Primo Levi (della raccolta Lilít) si legge dell'arrivo ad Auschwitz d'un convoglio di deportati ungheresi: appena scesi dai vagoni le SS li avevano costretti «a togliersi le scarpe e ad appenderle al collo, e li avevano fatti camminare a piedi nudi, sui ciottoli della ferrovia, per tutti i sette chilometri che separavano la stazione dal campo». Non riesco a dimenticare questo (piccolo?) evento di quasi settanta anni fa: che non è inventato ma appartiene alla storia. Non è il delitto più grave del nazismo; e nemmeno la più feroce delle sue vessazioni. Ma l'evidente gratuità dell'afflizione imposta, la sua appartenenza all'ordinaria amministrazione e insieme la sua valenza simbolica, mi colpiscono come fosse la prima volta che sbatto la faccia su qualcosa di simile. Conosco le spiegazioni storiche (e no) che se ne possono dare; però misteriosa, inesplicabile, mi pare la zona d'ombra — di buio, di male — che sta all'origine. E ne resto coinvolto, come si trattasse di un avvenimento d'oggi: senza riuscire a liberarmi da un senso non solo d'orrore ma di tristezza — sì, di inquietudine, di confusa paura — di cui non vengo a capo. Perché i deportati ungheresi erano uomini come me; ma uomini come me erano anche i loro carnefici: e io adesso cerco, in me, qualcosa di loro.
© Riproduzione riservata