Molte le parole che la Rete dell'informazione ecclesiale sta continuando a pronunciare su George Floyd e sul movimento che la sua morte violenta ha scatenato. Lo stesso papa Francesco, dopo l'Udienza generale del 3 giugno, ha espresso la sua vicinanza alla Chiesa e alla popolazione degli Stati Uniti telefonando ai vescovi Gomez e Seitz. Due interventi mi hanno colpito, vicini nei contenuti quanto distanti per la loro provenienza. Il vescovo di Gaborone (Botswana), Frank Nubuasah, aveva conosciuto Floyd durante un soggiorno negli Stati Uniti ed erano diventati amici. Così la «lettera d'addio» che gli ha rivolto pubblicamente e che è diventata una top-story del “Catholic News Service” ( bit.ly/37qMjTj ) è intrisa di notazioni personali: gli abiti che indossava mentre reggeva una bibita e i popcorn, il «sorriso contagiosissimo», il cuore di uno che «per chiunque avrebbe corso un miglio». Ricorda la sua coscienza di essere un afroamericano, con un piede nell'una e uno nell'altra cultura. E definisce quella di Floyd una «morte sacrificale», che tuttavia ha «acceso un fuoco che arde per la pace e il cambiamento». Anche la biblista Rosanna Virgili, sul blog “Alzo gli occhi verso il cielo” ( bit.ly/37eGQPa ), sottolinea questo aspetto. Soffermandosi sulla postura, divenuta simbolo, con la quale Floyd è morto, «otto minuti e quarantasei secondi in ginocchio e in silenzio», l'autrice vi vede «la vittima che si “veste” del carnefice e trasforma un atto di sopraffazione e di morte (il ginocchio sul collo fino a spegnere il respiro di un uomo) in un atto di denuncia, di supplica, di speranza, di riscatto per quella vita». Un gesto massimamente cristiano, «paragonabile a quello di Gesù che sale sulla croce “vestendo” la carne del malfattore per trasformare quella croce di morte in braccia alzate che supplicano: “Perché”?». Per chiedere perdono, per «reclamare a tutti la resurrezione».
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