Con la consueta compattezza siti e blog dell'area antimoderna hanno speso i giorni della ripresa delle Messe con la partecipazione dei fedeli a contestare con ripetuti post, talvolta anche irridenti, le modalità di distribuzione della comunione individuate allo scopo di prevenire eventuali contagi. Considerando la trepidazione con la quale i cristiani comuni avevano atteso questa «ripartenza», mi sarei aspettato che la preoccupazione, francamente secondaria, che con il «pretesto» del coronavirus si vogliano condurre con la forza i fedeli a rinunciare per sempre a ricevere la comunione sulla lingua lasciasse il passo all'emozione e alla consolazione per le ritrovate assemblee liturgiche, come è accaduto in altri, meno militanti luoghi della blogosfera ecclesiale. Tra questi, proprio per il tasso di emozione e consolazione che contiene, interpretato con rigore teologico, segnalo il post che Giovanni Marcotullio ha consegnato al suo blog "Breviarium" ( bit.ly/36lB3qo ) e ad "Aleteia".
Oggetto del racconto, ambientato in una chiesa parrocchiale nella giornata di lunedì 18 maggio, due cesti posti presso il presbiterio a poca distanza tra loro. Uno destinato a raccogliere gesti di carità, l'altro, aggiunto dopo l'inizio del lockdown, in cui venivano lasciate, scritte, le intenzioni di preghiera che poi alla sera il parroco portava, letteralmente, sull'altare della Messa, rendendo in tal modo il suo popolo presente. Marcotullio si ferma a contemplare l'ispirazione di chi, impossibilitato a celebrare insieme la frazione del pane e tanto più sollecito dei fratelli in difficoltà, si è trovato a «glissare in un cesto identico a quello destinato alla carità» le intenzioni che ne animavano la vita spirituale. E annota: «Mi è balenato agli occhi lo splendido nesso tra il mistero eucaristico e il ministero diaconale, nesso fatto non di diritti e di rivendicazioni, ma di pura e oblativa carità».
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