Tra la speranza e la fiducia ho sempre preferito la fiducia. Non sto parlando — nemmeno ci provo — di virtù teologali. Mi riferisco piuttosto all'atteggiamento umano, alla postura interiore. Sperare pone in una condizione di attività solo apparente, un moto ansioso e in surplace nell'attesa che si compia qualcosa che indipende da noi. Fiducia è invece, al contrario, passività attiva: non serve che io faccia più di tanto, né che io scruti convulsamente all'orizzonte. So già il più di quanto c'è da sapere, e ho già in buona parte quello che conviene avere. Agitarsi non serve a niente. Rappresenta benissimo ciò che intendo una bella lettera della mistica duecentesca Hadevijch di Anversa a una sua intemperante discepola. Hadevijch le fa una ramanzina, invitandola a lasciare perdere un bel po' delle sue «buone opere» per starsene quieta al cospetto di Amore. «Non trascurare opera alcuna - le dice - ma non fare nulla in particolare». Con un'altra la pazienza è proprio al limite: «Perdi molto tempo per la cura che dedichi a qualsiasi cosa che ti capita… non sono mai riuscita a condurti verso la giusta misura». Fiducia è proprio questo: attendere quietamente alle necessarie attività quotidiane senza voler strafare, con il sorriso interiore di chi Amore lo sente e lo vede già presente accanto a sé. Questo pensiero è il mio saluto. Grazie per la compagnia che mi avete fatto.
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