Siamo periodicamente costretti a sorprenderci di quanto la cultura e la comunità scientifica oscillino fra tenaci dogmi e improvvisi dubbi. Prima, per anni, non si fa che fieramente predicare la totale, indiscutibile libertà di ricerca scientifica come sicuro motore di progresso. Poi, all’improvviso, qualcuno si accorge che una ricerca scientifica che proceda senza comunicare con la società, con il buon senso e il senso comune, può facilmente degenerare proprio a causa della sua indiscussa sovranità e del suo isolamento. L’etica dello scienziato non può essere del tutto autonoma rispetto all’etica sociale, né sottratta alla discussione pubblica. Se la scienza produce tecnologie che trasformano o addirittura “rivoluzionano” la nostra vita privata, intima, famigliare, ambientale e sociale, non si vede come sia possibile sottrarla al nostro giudizio personale e a quello della collettività. Scopro che questi ragionevoli dubbi sull’etica della comunità scientifica sono stati espressi domenica 15 aprile nell’editoriale del supplemento-libri del Sole 24 Ore, in un articolo di Elena Cattaneo e Andrea Grignolio, Scienziati che spiegano la scienza, illustrato da questo sottotitolo: «Il ruolo dello studioso non può limitarsi al laboratorio. Le resistenze sociali verso le innovazioni scientifiche si attenuano solo quando migliora il rapporto di fiducia tra i cittadini e le istituzioni accademiche e politiche». Naturalmente questo controllo dialogico è possibile e legittimo solo in regimi democratici. In caso di dittature e stati autoritari, quando la ricerca, le scienze e le arti possono e sono censurate e messe a tacere se non servono al potere politico, il rapporto di fiducia e di scambio viene escluso. Ma in democrazia è assurdo che la ricerca scientifica e soprattutto le sue applicazioni tecnologiche siano sottratte per principio alla discussione e alla valutazione morale, civile e sociale. Lo si è visto recentemente con i colossi dell’informatica. Per decenni se ne è parlato dogmaticamente in termini trionfalistici («Internet è libertà!»). Negli ultimi mesi, invece, non c’è giorno in cui non si lanci un allarme sui pericoli politici, psicologici, pedagogici, neurocognitivi che il loro uso e abuso può comportare. Nell’articolo sopra citato leggo frasi come queste: «l’iperspecializzazione disciplinare rischia di allontanare gli scienziati dalla loro missione originale», «gli studiosi devono essere percepiti come una risorsa della società, capaci di non abbassare mai la guardia sulla propria etica pubblica». C’è bisogno cioè di una «nuova alleanza tra scienza e società». Ma perché questo avvenga è necessario chiedersi, mi sembra, che cosa intendiamo per “progresso”. Cioè, in che cosa è bene “progredire”?
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