domenica 24 novembre 2013
Non capisco se certe mie storie mi piacciono in sé o perché sono mie: per come me le raccontavano da bambino. Il padre di mia madre è morto che lei aveva meno di tre anni. Era capostazione a Chilivani, nodo ferroviario della Sardegna (il cui nome dicono venga da una principessa indiana, Kiliwani, amante dell'ingegnere gallese costruttore della strada ferrata). Mio nonno a Chilivani aveva subito una rapina, a opera d'una torma di banditi. Quaranta tramanda la leggenda famigliare; quaranta come nella favola araba. Una notte avevano assalito la stazione, sparando da tutte le parti e gridando: «Saivadi poberu chi non è pro te» («Salvati povero che non è per te»). Mio nonno si era rifugiato sul tetto, in camicia da notte e pantofole: rimase nascosto lassù non so quanto tempo, al freddo e alla pioggia. Così s'ammalò d'una brutta malattia che gli costò prima la perdita del posto di lavoro, con le dimissioni, e poi la vita. Quand'era malato mia madre gli portava a letto il giornale. E dopo glielo portò, una volta, in cimitero, sulla tomba. Si legge che lo fa anche qualche cane col suo padrone: e questo accresce la pietà per la bambina. (Ma intanto quei gridi, «Saivadi poberu», e quegli spari continuano a echeggiare senza risposte nella mia vita, giunta faticosamente alla vecchiaia).
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