Ho letto in questi giorni l'attacco di Aldo Busi a Walter Siti, che non ha risposto (sono entrambi candidati e rivali allo Strega) e quello che lo scrittore australiano Peter Carey ha detto di Patrick McGrath («in Italia vende moltissimo perché ha un ottimo traduttore e un editore che lo sostiene», Adelphi) e perfino di Moby-Dick («un romanzo tanto confusionario che ho dovuto leggerlo ben tre volte per capirlo»). Cattiverie? Maldicenze? Quando si sentono certi pareri liquidatori si prova un certo sollievo anche se obiettivamente sono inaccettabili. Il movente sarà la competizione o la pura e semplice antipatia: eppure i giudizi aggressivi sembrano più genuini dei complimenti e delle lodi. La cosa che si apprezza, in questi casi, non è l'obiettività ma la schiettezza.I recensori di libri molto raramente dichiarano quello che hanno davvero provato nel corso della lettura e questa è la ragione per cui le stroncature si chiamano stroncature: termine che fa pensare a un atto violentemente aggressivo, magari divertente e liberatorio, ma giudicato quasi sempre esageratamente ingiusto. La rarità della stroncatura è fisiologica. Chi scrive recensioni regolarmente, se dovesse mettere nero su bianco le sue opinioni crude, sembrerebbe presto un denigratore professionale (o maniacale) degli autori. Il movente potrà essere condannabile, ma le cose che contano sono altre: la qualità intellettuale, letteraria della stroncatura e il suo grado di approssimazione alla verità. Il peccato capitale in questo caso meno grave credo che sia l'ira.L'ira (e i suoi succedanei, come l'impazienza, la stizza) è violenta, ma anche un po' comica. Nella buona stroncatura l'ira dovrebbe essere elaborata, messa in scena, recitata. Di fronte a libri cattivi, pretenziosi, noiosi che l'editore avrebbe fatto meglio a non pubblicare, o che sono apprezzati troppo al di là del loro valore, una certa ira è giustificata. L'impostore va smascherato! La truffa deve essere sventata! Questo è il primo istinto del critico.
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