Aprendo il servizio video che Vatican News ( tinyurl.com/y8ldea9m ) ha dedicato alla demolizione del presepe di sabbia in piazza San Pietro – esportazione a Roma della Jesolo Sand Nativity, vedi la pagina Facebook – il responsabile del progetto, Massimo Ambrosin, ha detto una cosa che mi ha fatto riflettere: «È il momento più doloroso». Alludeva a ogni scultura di sabbia, «che nasce e muore» rapidamente. Nel caso specifico, le immagini sono d'impatto, e c'è da scommettere che, come il presepe stesso è stato un «evento anche mediatico» (sono di nuovo parole di Ambrosin), così lo sarà, proporzionalmente, la sua distruzione: l'opera la compie un escavatore, il quale naturalmente non va tanto per il sottile nel riportare rapidamente a un grande mucchio di sabbia le belle figure modellate solo poco più di un mese fa. Niente di nuovo: nelle nostre case e nelle nostre parrocchie non abbiamo usato gli escavatori, ma probabilmente anche noi abbiamo smontato il presepe senza andare tanto per il sottile. Di più: nel rimettere nei ripostigli l'albero e le decorazioni, i pastori e la capanna, ben pochi, immagino, l'avranno vissuto come «il momento più doloroso», anzi: qualcuno avrà forse consumato un piccolo rimpianto per le feste «che sono già finite», ma qualcun altro, probabilmente, avrà celato a fatica il senso di liberazione per le feste «che finalmente sono finite». Anche dai media i presepi sono stati rapidamente smontati, e questa sì che è stata una liberazione: nelle scorse settimane il grado di strumentalizzazione con il quale si è narrato e commentato dei modi in cui le famiglie, le comunità cristiane e quelle civili hanno rappresentato la Natività era stato davvero troppo alto. Peccato che, come accade virtuosamente con la sabbia di Jesolo e con le nostre decorazioni e statuine, anche l'armamentario polemico sia stato solo riposto, pronto a venire riutilizzato il prossimo dicembre.
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