Si può pregare con qualsiasi parola. Con le nostre parole di tutti i giorni, queste parole deteriorate dall'uso, queste parole utilitaristiche scritte sempre in minuscolo, queste parole esitanti e senza sfolgorio, queste parole stropicciate dalla stanchezza, queste parole nelle quali la notte deposita la penombra e il sonno, tutti questi sostantivi che sanno di dover scomparire. La preghiera si fa con parole di routine, con le parole non risparmiate dalla polvere degli enigmi, con parole anonime, senza la minima importanza, che neppure figurano nei dizionari. È fatta di parole sempre povere, sempre al di qua, parole silvestri come fiori colti di passaggio, parole fluviali che hanno assistito ai nostri intimi naufragi, parole che poi si sorprendono di trovarsi lì, nella nostra orazione ardente ed effusiva.
La preghiera attinge alle nostre piccole, alle nostre più sguarnite parole umane, parole che portano incollato il peso della tenebra, parole in cui riverbera il disorientamento del mondo, parole che neppure son parole ma cenci - ché tante volte è solo questo che ci rimane. Ma tu accetti, Signore, che queste, precisamente queste, parole indigenti siano il nostro corrimano per salire, gradino dopo gradino, all'altezza del tuo volto.
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