Giorni fa è successo questo. Ero a cena con un amico che non vedevo da diversi anni, e verso la fine del pasto è venuta a galla l'epoca in cui avevamo vissuto vicini. Con grande semplicità, l'amico mi ha raccontato ciò che quel tempo ha significato per lui. E ha spiegato il perché, con quel modo e quel tono che chiunque di noi assume per spiegare la rilevanza dell'amicizia nella costruzione che noi andiamo facendo di noi stessi. L'amicizia amplifica, rileva, sospinge, inaugura, approfondisce, diverte… L'amicizia è un miracolo che conserva, serenamente, l'apparenza di non essere affatto un miracolo: si tratta soltanto della naturalità della vita in opera. Mi sono poi soffermato su ciò che egli mi ha detto, e ancor più sulla mia reazione. Mentre lo ascoltavo, ho sorpreso un imbarazzo dentro di me, e mi chiedevo da dove venisse, dal momento che reagivo come se quelle parole necessarie, quelle parole che noi dobbiamo agli altri, dovessero rimanere implicite e non pronunciate. Il mio amico voleva dirle e insisteva, ma io cambiavo discorso, tentavo di andare oltre. Tuttavia, dopo essermi congedato, mi ha fatto vergognare la mia stupida difficoltà di ascoltare con attenzione (e, anche per questo, con gratitudine) il modo in cui noi passiamo per la vita degli altri. Troviamo più confortevole sequestrare le nostre relazioni nell'ovvio e nel non-detto.
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