mercoledì 2 ottobre 2013
Ieri ho messo a verbale in questa rubrica, scritta come fosse (non è) un definitivo commiato, che la vita (la vita terrena, intendevo) scorre «infinitamente». È sbagliato: l'avverbio è sbagliato; a meno che non gli si assegni una valenza retorica, volta a significare la multiforme grandezza e la incalcolabile durata della vita, qui sulla terra. Come quando si dice che il mare è infinito. Invece la vita terrena ha avuto un inizio: ce lo dicono la storia (anche della Creazione) e la scienza; e lo sentiamo, confusamente: ce l'abbiamo scritto dentro, in caratteri di non facile decifrazione ma indelebili. Dentro abbiamo anche scritto, con gli stessi caratteri, che questa cosa, la vita della terra, avrà una fine. È una percezione, più che una previsione; e cresce, cupa, con la vecchiaia: dicendoci d'una deteriorabilità, d'una caducità propria non solo dei singoli beni ma dell'intero loro sistema. Sì, aumentano i sinistri e inascoltati scricchiolii del mondo, stretti parenti dei nostri peccati. Eppure questa dolorosa vita è anche splendida: il destino d'essere creatura, proprio di ogni essere e cosa sul pianeta, riluce malgrado tutto di vera gloria. Forse perché, avvertiamo oscuramente, non comporta un definitivo perire: contiene invece una sua salvezza. Sua, ma che non può venirgli da sé.
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