Oltre venticinque anni fa, in un'altra vita, ho scritto d'un vecchio romanzo: «Procedura viene dal sostantivo francese procédure, a sua volta derivante dal verbo procéder. Proprio qui cade l'accento e non c'è punto di arrivo, o non si vede o comunque conta meno; procedura come mezzo senza fine (nei due sensi)». Ma ora Papa Francesco non si limita a dire «camminare»: la sua lezione si completa con le altrettanto indispensabili esortazioni a «costruire» e a «confessare». Guai al procéder che non si pone una meta («confessare») e non si volge a essa con tutta la possibile coerenza umana («costruire»). Eppure, a tentare di leggere dentro un'intera lunga – troppo lunga – esistenza, come sembra cieco il nostro procéder: privo di scopi non destinati a consumarsi nel volgere d'una stagione. Sicché alla fine, nel guardarsi indietro, è l'insieme dei passi fatti e delle stagioni vissute che sgomenta: assumendo un senso irrimediabile di vanità e di perdita. Si può, nell'esiguo tempo rimasto, cercare di far sì che la procedura non sia più «mezzo senza fine»? Cioè senza scopo; perché invece la fine, al femminile, sta bussando alla porta. Si può? Atto per atto, con i pochi mezzi disponibili: adoperando le esperienze sedimentate, i mestiere appresi, tutta l'astuzia residua d'un decrepito serpente.
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