mercoledì 13 dicembre 2017
Questa pizza m'è rimasta sullo stomaco, non l'ho digerita. Non parlo delle svariate volte che capita di rigirarsi nel letto dopo aver mangiato una pizza indigesta, ma del riconoscimento Unesco all'arte del pizzaiolo, sbandierato su giornali e tivù come una conquista. Ma di cosa? In verità, a leggere la nutrita rassegna stampa i pareri si sono divisi: da una parte chi ha sfoggiato i migliori peana ai "pizzaiuoli" con la retorica della Margherita dedicata alla Regina e altre storie già risapute; dall'altro chi s'è domandato a cos'altro porterà questo precedente? Già perché anche il risotto, anche il cous cous, persino la bagnacauda meriterebbero d'essere patrimonio dell'umanità (o anche no?). E che dire della pasta all'amatriciana o delle lasagne alla bolognese che inopinatamente rappresentano l'imitata cucina italiana all'estero? C'è poi un equivoco: non viene proclamata bene dell'umanità la pizza italiana in quanto tale, che si può fare a Napoli come a Verona (e gli americani dicono persino di averla inventata loro), ma il saper fare dei pizzaiuoli napoletani. E qui casca l'asino. Primo, perché questo riconoscimento non è per nulla una barriera all'italian sounding, ma ne apre le porte, giacché chiunque in qualsiasi parte del mondo si potrà ispirare al saper fare napoletano. Secondo, perché non si capisce cosa sia questo "saper fare", in un'epoca dove le pizzerie gourmet hanno svergognato il business facile della pizza indigesta, fatta alla buona, senza attenzioni sulle lievitazioni e men che meno sui topping (funghetti insapori, carciofini…). Per dirla tutta, questo riconoscimento, che sarà costato tempo e denaro con gente pagata per dare un parere, ha il sapore dolciastro del folklore italiano. Fra i commenti non acritici condivido allora quello di Giordano Tedoldi su "Libero" che ha detto: "È questo il modo migliore per preservare il patrimonio? Questa demagogia, questo non approfondire nulla, questo appioppare il bollino di qualità a fatti e cose di cui, in realtà, non si preserva affatto la specificità". Già perché in un momento in cui la pizza è diventata buona, grazie alla considerazione su impasti, farine, lievitazioni e quant'altro e si continua a studiare (a Vighizzolo d'Este c'è persino un corso denominato Università della pizza), un ex ministro dell'Agricoltura di origine napoletana non trova di meglio che riportare il discorso pizza al via, come al gioco dell'oca. Ma noi vogliamo parlare della qualità della pizza italiana, del suo futuro che crea economia. E la strada non è il folklore, ma un lavoro che ha dentro elementi di scientificità per dire che quel piatto ha lo stesso valore della cucina italiana col suo ricettario. L'Unesco, invece, ci ha riproposto un noto stereotipo: pizza e mandolino.
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