Storia adottata: Al Muro di Berlino,1989. Dal libro di Katja Petrowskaja, "La foto mi guardava", Adelphi - Autore ignoto - Archivio di famiglia di Katja Petrowskaja
E se fosse la foto a guardarci? A interrogarci? A chiederci cosa pensiamo e di darle voce? «Una donna è alla finestra. Nella sua stanza. È sprofondata in se stessa. D’una bellezza magica. Attende il futuro, ricorda il passato? Gli occhi sono puntati su qualcosa, tranquilli e un po’ diffidenti. Le mani toccano il vetro – un confine nettamente percepibile, che appare tuttavia confuso e fragile. Il mondo esterno si fonde con il suo mondo interiore». La scrittrice tedesca di origine ucraina, Katja Petrowskaja, descrive così l’immagine di copertina del suo ultimo libro: La foto mi guardava (Adelphi, pagine 270, euro 24). È uno scatto che cattura la sua attenzione. Sì, la guarda. E con lei, ci guarda. Ci invita a scoprire di più su questa donna che ricorda il Rinascimento e «l’intero tumulto» che scatena una Monna Lisa. La foto è “rubata” dal primo e più famoso film della danzatrice, teorica del cinema e regista Maya Deren, Meshes of the Afternoon, girato nel 1943, insieme ad Alexander Hammid, l’emigrante ceco che era allora suo marito. «Il film si sviluppa girando su se stesso come una trottola, in una variazione di scene ripetute dove sogno e realtà si intrecciano. (…) Non capiamo esattamente se si tratta di un risveglio dal mondo reale nel sogno oppure una caduta dal sogno nel mondo reale. (…) Nel film la donna alla finestra vede se stessa passare di corsa davanti a quella stessa finestra. Maya Deren diventa il proprio riflesso». Ma chi è Maya Deren? «Nasce come Eleonora Derenkowskaja a Kiev in una famiglia ebraica benestante nel 1917, l’anno della Rivoluzione. Suo padre è un celebre psichiatra. La famiglia abbandona Kiev nel 1922 per sfuggire agli arbitri del potere e ai pogrom, ed emigra negli Stati Uniti dove il cognome viene accorciato in Deren. Eleonora studia scienze politiche, giornalismo e letteratura inglese. La sua passione per la danza, per i ritmi rituali e la dissoluzione estatica di sé si esprimerà in seguito nel cinema. Persino al mondo del cinema accede grazie a una sorta di “iniziazione” mitologica. Perciò assume il nome di “Maya” – un nome che “condensa” significati rituali e religiosi: per i buddhisti “Maya” è l’“illusione”, nella mitologia greca la “madre”».
Il libro di Katja Petrowskaja, "La foto mi guardava", Adelphi - In copertina un fotogramma tratto dal documentario "In the Mirror of Maya Deren" (Navigator Film)
Una storia affascinante. Una delle tante che Katja Petrowskaja racconta fra il 2015 e il 2021 sulla Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung e poi raccolte in volume nel 2002 (ora in italiano per Adelphi). Storie senza tempo di immagini che ci guardano. E ci parlano. La Petrowskaja, che si era affermata con Forse Esther (2014) sulla Seconda guerra mondiale e la genealogia della sua famiglia ebreo-polacca, si è cimentata in un genere tanto antico, quanto arduo: l’ecfrasi. Non di dipinti, ma di fotografie, appunto. Fotografie che l’hanno colpita e in cui si è imbattuta: in una mostra, un libro, un mercato delle pulci. Così avviene con la foto risalente al novembre del 1989, «comprata al Mauerpark di Berlino nel punto in cui il Muro proveniente da Bernauer Strasse piegava bruscamente verso Nord»: «Là dove prima c’era l’ampia striscia della morte, troviamo oggi uno fra i più grandi mercati delle pulci di Berlino. Qui da due decenni viene venuta la Storia, frantumata in piccoli oggetti e cianfrusaglie varie. Così anch’io ho comprato un pezzo di storia privata dei giorni n cui cadde il Muro, quasi fosse una parte della mia storia personale». La foto che “guardava” Katja Petrowskaja raffigura «un uomo che si sta voltando verso una donna. Ha gli occhi chiusi. Sta ammiccando o è il sole che lo abbaglia in quella giornata di novembre? La donna è il vero punto vocale. Ha la bocca socchiusa, quasi fosse sorpresa, quai fosse di fretta. Gli occhiali da sole le nascondono gli occhi. Vuole forse sentirsi doppiamente protetta? Chi dei due è dell’Est e chi dell’Ovest? I miei amici ritengono che all’Ovest, in quegli anni, quasi nessuno portasse i baffi. La donna assomiglia moltissimo a una mia conoscente. Nemmeno per un secondo ho creduto di averla potuta “comprare” per caso. Preferivo fantasticare su di lei, sulla sua vita, sulla sua professione, e anche su quel fuggevole istante accanto al Muro. Tra i due volti distinguo sul Muro la parola “Caos!”». Dopo la pubblicazione dell’articolo una lettera da Roma dà un nome e un volto a quella donna, Anna Maria. Per lei è l’unica foto di quel momento sotto il Muro, appena dopo la caduta.
L’illuminazione di Petrowskaja nasce da un’altra foto: quella di un minatore del Donbass avvolto dal fumo della sua sigaretta. I minatori andavano caparbiamente al lavoro, anche senza salario, nel pieno della guerra ucraina (è di queste ore la nuova avanzata russa nella regione). «Perché il lavoro era pace e la guerra assurda». «La foto mi guardava – scrive Petrowskaja –. Quella vicinanza mi ipnotizzava, ne ero addirittura spaventata. Non sapevo nemmeno dove si trovasse Krasnoarmijs’k, eppure quell’uomo era lì davanti a me, fin troppo vicino e mi soffiava in faccia il fumo della sua sigaretta. Attendevo che il fumo si diradasse per scoprire se l’uomo stesse sorridendo oppure sghignazzando. Niente da fare, lui mi guardava attraverso il fumo della sigaretta e restava lì, come avvolto in un mistero. Cosa rappresentava lo sguardo di quel minatore nero con gli occhi bianchi? Disperazione? Rimprovero? Saggezza? Rabbia? Fede? Sembrava cieco. Invece la cieca ero io, nella mia insipienza, nella mia ignoranza riguardo a questa regione. Quella foto mi guardava la mia stessa cecità, la mia stessa impotenza».
Foto e parole, in un libro che «non parla di guerra, ma è stretto nella morsa della guerra» scrive alla fine Petrowskaja, mentre lo sguardo va inevitabilmente a quello che avviene nella sua terra d’origine e nel mondo. «E la guerra uccide, nega il senso, la normalità, e la varietà, tutto ciò che noi amiamo. La guerra potrebbe giungere a cancellare le nostre parole sussurrate». Alla guerra Katja oppone questi sguardi. Queste immagini, questi frammenti senza voce. Che ci guardano. Cercano i nostri occhi. E la nostra voce, per parlare.
Una foto, un libro e 990 parole.