Nell'ultimo numero di "Soglie" (anno XII, n.3) compare un'intervista a Harold Bloom, oggi il più discusso critico letterario occidentale, ormai canonico proprio in quanto autore di un libro intitolato Il canone occidentale.
Bloom ha superato da poco la soglia degli ottant'anni, ma come il suo coetaneo (e rivale) George Steiner, non smette di elaborare e riproporre i suoi temi, in chiave sempre più autobiografica. Lontani sono gli anni in cui la critica letteraria aspirava a diventare una tecnologia oggettivante, una Scienza del Testo che poteva permettersi di cancellare l'esistenza degli autori. La struttura e la semiologia testuale dovevano essere tutto; gli autori, i lettori e la storia delle culture letterarie erano nulla.
Bloom (non da solo) ha restituito la critica alla sua grande tradizione, che è saggistica, valutativa, soggettiva. «Non riesco a fare nulla che non sia personale» risponde al suo intervistatore Adam Fitzgerald: «O il lavoro del critico è parte della letteratura o non dovrebbe esistere affatto. L'oggettività è una farsa. Un mito». E poco più avanti: «Con l'avanzare dell'età si avverte che il lavoro dello studioso - l'insegnamento, la lettura, la scrittura - deve essere non solo umanistico, ossia proprio dell'umanista, ma umano».
Bloom arriva spesso a un'enfasi quasi maniacale nella misurazione della grandezza degli autori, non nasconde tuttavia le sue gerarchie e preferenze personali: Dante viene dopo Shakespeare e (come Platone) è grande ma non gli piace. Eliot non lo entusiasma, preferisce Wallace Stevens e Hart Crane. Il suo idolo moderno è Whitman, amato per quel «senso della transitorietà» che non lo abbandona mai. Gli piacciono i «sublimi scettici», da Lucrezio a Leopardi. Ma con Auden («un ottimo poeta comico» e niente di più) Bloom dice che litigava spesso. Auden non sopportava Shelley, né Withman né Stevens, e neppure Lucrezio. Perché? «La cristianità» spiega Bloom «era troppo radicata in lui…».
© Riproduzione riservata