Caro Tarquinio, anche alcuni di noi, partecipanti al coordinamento Pace e Disarmo di Belluno, hanno partecipato a Vicenza alla manifestazione organizzata dalla comunità palestinese del Veneto una settimana fa. Circa 4mila persone di diverse provenienze e appartenenze, hanno sfilato pacificamente per più di due ore per le strade di quella città per chiedere il riconoscimento dello Stato di Palestina e il cessate il fuoco a Gaza. Condanniamo l’azione terroristica ingiustificabile di Hamas contro cittadini di Israele. Così come condanniamo le scelte del governo Netanyahu, perché non possiamo accettare che una democrazia provochi a Gaza, dopo più di tre mesi di guerra, vittime civili in misura doppia rispetto a quelle d’Ucraina in quasi due anni di guerra aperta, eluda il diritto internazionale e occupi sistematicamente il territorio palestinese. Ciò che rende angosciante e sconcertante questa fase è l’attuale allineamento dell’Europa, come dell’intero Occidente e dei suoi partiti più influenti a un’escalation bellica su tutti i fronti, dall’Ucraina a Gaza fino - ora - allo Yemen degli Houti, alimentando tutto ciò che concorre allo scontro armato tra Stati. La politica occidentale sembra orientata a questo con chi si frappone ai suoi interessi e nelle Assemblee che pesano sul destino dei popoli, si astiene o mette il veto a scelte diverse. Non discute su processi di pace che richiedono un coraggio, una determinazione, un’intelligenza, una profondità d’analisi molto superiore allo spararsi addosso. Non si discute sulle cause che hanno innescato i conflitti, del loro evolversi nel tempo. Non ci si ferma a riflettere sulle conseguenze della violenza, sull’espansione e l’esasperazione di ideologie "radicali" e sulla sicurezza dei cittadini all’interno di Stati dove convivono milioni di persone provenienti da culture differenti. La digplomazia sembra sepolta. La politica ha imboccato la strada della contrapposizione armata e non sa più uscirne. Come rassegnarsi a questo?
Francesco Masut
Caro Tarquinio, il tennis, in particolare il tennis femminile è un prezioso termometro per misurare la situazione della guerra in Ucraina. Sono infatti molte le tenniste di rango, russe, bielorusse ed ucraine che si trovano sui lati opposti dei campi - su terra rossa, su cemento o su erba - in partite cariche di agonismo ed emotività. Partite che si chiudono tutte col medesimo risultato: chiunque vinca, nessuna stretta di mano. Un atto deciso dalle tenniste ucraine per manifestare solidarietà al Paese attaccato e, come testimoniato recentemente agli Australian Open da Maria Kostyuk, manifestare una presa di posizione contro l’Autorità sportiva che concede di giocare (pur sotto bandiera neutrale) alle tenniste russe e bielorusse che non hanno manifestato pubblicamente opposizione al regime. Io penso che lo sport, come la cultura, debba essere invece territorio di incontro o anche di scontro all’interno di regole definite e rispettate. Il mondo ideale che la politica dovrebbe prendere a modello. Ma anche qui il termometro della guerra segna ancora febbre, basti pensare a cosa è successo nel torneo juniores dove la sedicenne ucraina Elizaveta Kotliar ha stretto la mano dell’avversaria russa Vlada Míncheva. Subito si è scatenata l’ondata social che ha fatto correre ai ripari il padre della ragazza che ha assicurato che non succederà più. Forse invece dobbiamo sperare che succeda ancora, anche ad altre… Quel gesto - derubricato come automatico e incosciente, e invece tanto umano - dice che forse Elizaveta ha visto dall’altra parte solo una ragazza come lei, non un nemico. Forse non vale per chi è ai comandi di questa odiosa guerra, ma se i giovani soldati mandati a uccidere o a essere uccisi pensassero che di fronte a loro ci sono giovani impauriti come è più di loro, con sogni e desideri simili, magari si fermerebbero. Perché questa guerra si può fermare. Che lo sport continui a rappresentare il mondo come lo vorremmo.
Daniele Piccinini
Gentile Tarquinio, la narrativa politico-mediatica prevalente continua a trasformare gli altri in nemici e quindi a far diventare la guerra - di difesa o per sconfiggere il terrorismo - qualcosa di inevitabile, unica via possibile, quindi via giusta. Ci si dimentica come dice il Papa - e come anche lei ha molte volte argomentato in questi anni - che la guerra è sempre una sconfitta e che qualsiasi pace sarà sempre più giusta di qualsiasi guerra. Quanti morti e mutilati sacrificati alla causa dei confini, della terra, del potere! La strada alternativa, da prendere sul serio, l’ha riproposta la scorsa settimana proprio dalle pagine del vostro/nostro giornale il cardinale Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme: "La via maestra per chi vuole costruire contesti di pace è l’incontro". E ancora: "L’altro non è un rivale, è un fratello". La grandezza dei leader, dei giornalisti, di noi comuni cittadini che vogliamo davvero la pace è favorire l’incontro e smontare la teoria del nemico. E bisogna credere per davvero che questa non sia propaganda di "anime belle" pacifiste, ma sano realismo. Realismo che può salvarci. Ma "incontrarsi richiede coraggio e pazzia ", come quella del Poverello di Assisi, e purtroppo oggi non si vedono personalità politiche all’altezza di questo compito, tutte hanno paura di perdere un po’ del loro potere. Continuiamo senza stancarci, come cittadini e come giornalisti a chiedere di incontrare il fratello, via maestra per la pace.
Lorenzo Neri
Continuo a ricevere lettere molto belle, proprio come le tre di oggi, da amici lettori che non si rassegnano alla guerra e al ritorno sanguinoso e ostentato all’opzione bellica come "mezzo per la risoluzione delle controversie internazionali". Esattamente ciò che la Costituzione della nostra Repubblica, con la splendente e solenne eloquenza dell’articolo 11, proclama di voler "ripudiare". Giro anche per l’Italia, invitato a incontrarmi in dialogo "dal vivo", nel nostro tempo di comunicazione digitale, con chi nutre questa stessa preoccupazione per la guerra dilagante e non smette la passione per la pace da costruire e custodire. Mi piace constatare che siamo in tanti e in tante, provenendo da diversi cammini e diverse esperienze, a tener caro il diritto-dovere di farci e di fare tutte le domande più incalzanti e scomode, di nutrire e affrontare dubbi e angosce per quanto sta accadendo: sulle cause, le responsabilità e le conseguenze degli scontri armati che insanguinano l’umanità e intossicano d’odio (e altri veleni) persone, popoli e ambienti naturali.
Dico spesso - e verifico di non essere affatto solo, a pensarla così - che non esistono posizioni "senza se e senza ma" (i "se" e i "ma" fanno parte della nostra esistenza), ma esistono impegni ragionati e maturati con l’unico realismo umanamente e cristianamente possibile, quello che porta al primo posto la vita e la morte, la speranza e la sofferenza degli esseri umani, tutti senza distinzioni. Mettersi non solo dalla parte, ma nei panni delle vittime - i civili innocenti, le persone mandate al fronte e comunque schierate a battaglia per distruggere, uccidere e a farsi uccidere - aiuta a vedere la verità della guerra, ed è l’unico modo per non farsi invischiare e persino travolgere dalle propagande di chi la guerra la premedita, l’organizza, la ingaggia e in diverse maniere la conduce. E questo vale per la guerra russo-ucraina, per la guerra israelo-palestinese e per ogni altra delle 184 guerre oggi in corso su tutta la Terra, a cominciare dalla guerra di Yemen che contrappone due fazioni di quella nazione, due blocchi del mondo islamico (sunniti e sciiti) e rischia di accendere uno scontro sempre meno indiretto tra, da una parte, Paesi occidentali e Israele e, dall’altra parte, Iran e i suoi alleati (non solo mediorientali).
Credo anche che il nostro pezzo di mondo, che chiamiamo Occidente e che ci è giustamente caro, abbia una speciale responsabilità in questa fase storica segnata dalla pratica dilagante e dalla nuova legittimazione della guerra. La responsabilità di non farsi complice della deriva bellica e di spendersi per costruire una governance globale diversa, efficace, capace di comporre i conflitti. L’Occidente ha il potere per farlo, e ne avrebbe il dovere, con lucidità, lungimiranza e generosità. Anche in Italia vedo che qualcosa comincia ad accadere tra forze politiche, leader di partito ed esponenti di governo. Si cominciano a trovare accenti diversi. Consideriamo e valorizziamo quesiti cambiamenti, lavoriamo perché si vada avanti. L’Italia, all’interno dell’Unione Europea, ha un ruolo da svolgere, forte anche del principio scolpito nella sua Carta fondamentale, quell’articolo 11 che ho appena richiamato e che papa Francesco il 27 febbraio 2022, mentre l’invasione russa stava scatenando la seconda e terribile fase della guerra d’Ucraina, propose al mondo intero come bussola politica e morale.
Un ruolo che non può e non deve essere - mi collego alla strettissima attualità - quello di inviare navi al largo dello Yemen per una missione militare "prevalentemente di politica di difesa", come ha scandito la nostra presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Quell’avverbio, "prevalentemente", fa correre un brivido lungo la schiena. Una difesa "prevalente" significa che si apre lo spazio per un’offesa possibile. Un tempo si sarebbe gridato e cantato: "Partono le cannoniere". Con tutto ciò che consegue da una simile decisione. Con tutto ciò che quella dichiarazione dice all’opinione pubblica del nostro Paese e al resto del mondo. Penso che si possa concepire e attuare un’azione a tutela della navigazione nelle acque internazionali e degli interessi commerciali italiani, ma non si debba fare nessun passo ulteriore dentro l’escalation bellica in atto nel pianeta, dove, come ammonisce il Papa, i pezzi della "guerra mondiale a pezzetti" cominciano a drammaticamente a "saldarsi tra loro".
Un’ultima riflessione. È una ferita aperta e sempre più dolorosa che nel nostro tempo, anche in Italia e in Europa, si schierino le flotte per difendere la libera circolazione delle merci di ogni origine e stipate su navi di ogni bandiera, ma non ci si muova per obiettivi umanitari e per organizzare e garantire la libera e sicura circolazione delle persone quando queste sono povere e decidono di partire dai Sud del mondo. Non abbiamo schierato la flotta al largo di Gaza, e neanche davanti allo Yemen dove l’Onu denuncia la disperante condizione della popolazione. Ricordo, invece, ancora una volta, che nel 1979, 55 anni fa, anche noi italiani mandammo navi miliari nel Mar Cinese Meridionale per soccorrere e salvare i profughi vietnamiti che avevamo ribattezzato boat people...
Credo che sia proprio per questo sopravvenuto deficit di umanità e di solidarietà e per le priorità politiche sbagliate in cui esso si traduce che la nostra civiltà sta riprecipitando nell’inciviltà della guerra e delle mobilitazioni di parole incendiarie e di "carne da cannone" che sempre le guerre pretendono. Non è un destino inesorabile, dipende anche dal nostro consenso. Dalla nostra indisponibilità a rassegnarci e dalla tenacia a ragionare, alzare la voce, agire per la pace, stringere la mano dell’altro (nello sport e non solo), premendo su chi regge il timone della politica.