La notte. Una notte anticipata, quella delle città "in covid". Silenziosa, si sentono solo i rumori delle bici e delle moto dei rider. Nel buio, nel fresco delle notti di una primavera timida che diventano sempre più piacevoli, li si vede sfrecciare. Portano pizze, zuppe, sushi, insalate, poke, involtini, dolci, gelati, vino, alcolici. Anche dopo l'ora fatale continuano a popolare le strade deserte, si lanciano gesti, saluti, si fermano a un incrocio, parlano, si raccontano cose, si scambiano informazioni. A volte hanno la musica a palla e la lasciano scivolare dietro le loro spalle. Sono vestiti nei modi più diversi, ma sono soprattutto coperti di più strati, impermeabilizzati e nello stesso tempo sono colorati, di giubbotti riflettenti e di caschi e berretti. Sono gli unici che popolano queste città, gli unici a cui la notte si apre, gli unici a conoscerla nelle più remote pieghe.
Una strana rivincita dell'immigrazione. Per quanto sfruttati, per quanto sfiniti, per quanto non protetti, sono i padroni della notte cittadina. Ne sono gli abitanti. Durante il giorno si raggruppano sotto i monumenti, riposano sotto le porte della città, e attendono le chiamate. Con in mano l'immancabile tablet, dove c'è l'ordinazione, attendono fuori dai negozi che i pacchi che devono recapitare siano pronti. Hanno fretta perché vogliono riuscire a fare abbastanza viaggi prima di cadere sfiniti. Sono l'immagine di una strana economia urbana, quella che vive nonostante la clausura, quella di chi, al contrario degli abitanti abituali, si serve ancora della citta come risorsa primaria. Tutti noi, invece, siamo vittime di un teatro di ombre private. La città è diventata domicilio e ci siamo dimenticati che possiamo ancora usarla. Ce ne eravamo dimenticati anche prima, quando avevamo deciso che era meglio restare ore davanti al computer o che era meglio vivere digitalmente o che semplicemente rimandavamo a tempi migliori, alle vacanze il nostro uso dello spazio urbano. Durante il giorno, il fine settimana soprattutto sono le badanti, le colf, le donne che puliscono gli uffici e i condomini a riunirsi sulle panchine dei parchi, a scambiare in moldavo, lettone, ucraino, ungherese, albanese, tamil, bengali, tagalog le loro storie di vita, a cercare di darsi sostegno, popolando giardini e viali vuoti.
È una città abitata da stranieri residenti, popolata da lingue straniere che si intersecano. Gli africani che sfrecciano nella notte si scambiano saluti in swahili, wolof, bambara, inglese, francese, portoghese. Sfiorano altri africani che invece occupano gli angoli fuori dalle pasticcerie e i panifici, che chiedono qualche moneta. Tutti usano la città, i suoi marciapiedi e le sue strade come risorsa primaria, come luogo dove far fruttare i propri contatti, i propri muscoli, la propria pazienza. Che strano mondo, quello in cui sono gli stranieri a diventare abitanti e gli abitanti a diventare stranieri nella propria città.
È una metafora vivente del modo con cui il mondo sta funzionando da qualche decennio, un mondo sostenuto da invisibili/visibili stranieri che fa funzionare il mondo degli invisibili/invisibili cittadini. È una metafora della democrazia salvata da chi non ne gode i diritti. È la messa in ridicolo di una nuova legge sulla cittadinanza – tra ius soli e ius culturae – sempre promessa e mai arrivata. Ecco, nella pratica lo ius soli è questo comunque, il diritto all'uso del suolo delle città, il diritto a servirsi delle città come luogo in cui è possibile costruire la propria sussistenza. Tutto ciò al di là del timore dei benpensanti di sinistra che essere rider sia sfruttamento e autosfruttamento e nella eterna conquista di coloro che sono "fuori dal mercato" di spazi di sopravvivenza. Come nella magnifica metafora vivente dell'immigrato che al self service della pompa di benzina vi offre il suo servizio, nello spazio che la globalizzazione ha mangiato nel mondo del lavoro. È l'imbroglio dell'economia formale che non può vivere senza quella informale, anzi si basa su di essa.
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