martedì 5 novembre 2013
Succede che ci si veda tornare lentamente alla polvere: quia pulvis es, perché siamo polvere. Le funzioni dell'organismo ne danno l'avviso, con le loro cilecche; e il corpo rivela che sta cominciando a disfarsi, in una mutazione irreversibile. Il vecchio protagonista di queste storie china gli occhi sul suo braccio assottigliato: i muscoli come spaghi privi di tensione, sotto la pelle divenuta una specie di debole squame. Il vecchio continua l'osservazione: prova a muovere il braccio, più volte, e lo guarda. Quasi con indifferenza: va bene, fossero solo questi i suoi guai. La posta che gli preme davvero la gioca (e la perde) su altro. Sì, è stanco, il vecchio, è quasi sempre stanco; ma non è solo stanco. È infelice: ma forse non solo infelice. Sa che la vita non finisce nel suo corpo, e nemmeno tout court nel corpo, né in ciò che capita a ciascuno di noi: è assai più grande. Talmente accanita a essere se stessa, a resistere, a durare: con le sue innumerevoli, sorprendenti risorse. Riesce sempre ad andare avanti, la vita, a farsi posto: come l'acqua che s'insinua e poi scorre. In questa sua forza multiforme, inesausta, pare di riconoscere la forza stessa della Creazione. E nell'anima che non vuole morire del creato al vecchio sembra, per un attimo, di ritrovare la propria anima.
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