Della Spagnola, l'epidemia che nel 1918 anche in Italia fece una strage, non ho mai ascoltato, nemmeno dai più anziani, alcun ricordo.
Come uno strano pudore, attorno a quei mesi. Come non si parla volentieri di una guerra perduta. L'altro giorno però una cugina mi ha raccontato di suo padre, che aveva, nel 1918, quindici anni. Una famiglia di Parma: il padre e il fratello maggiore al fronte, e il ragazzo rimasto con la mamma, quando lei si ammalò. La febbre altissima, il fiato che mancava, e attorno centinaia che cadevano malati e morivano. Non c'erano medicine, e in quella casa, assente il padre, nemmeno c'era da mangiare. La malata stava morendo, oltre che per il virus, di fame. Un pomeriggio il figlio osservò quanti piccioni becchettavano per la piazza. E la mattina presto, quando in giro non c'era nessuno, uscì con la fionda. Non era un gioco da ragazzacci, era disperazione. Riuscì infine a catturare un piccione, lo spennò e lo bollì. Chissà che pena, quel brodo. La madre morì. Ma a Parma, capìte, terra di abbondanza, nota nel mondo per prosciutti e formaggi regali, durante la Spagnola un ragazzino non trovò altro che un piccione di piazza, per sua madre. Il che mi fa pensare che, anche dopo il Covid e questa guerra, noi qui, ancora, non sappiamo niente. Di cos'è la fame davvero, la miseria davvero, noi qui, fortunati, non sappiamo.
© Riproduzione riservata